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Giulio Barlassina |
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"Ricordando un giusto" |
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"Egli sarà come un albero alto piantato sulle rive del fiume che il frutto matura ad ogni stagione e foglie non vede avvizzire: a compimento egli porta ogni cosa"
Salmo 1, 3
Dario Mencagli Kirsten Andersen Ermanno Battisti Ennio Pirondi Carlo Tradati Franco Lacchini Grazia Longhi Giancarlo Carrara Piera Brigatti Jose e Gigi Rota Giovanni Gadda Renzo Milanese Patrizia Pucci Giovanni Zonta Guglielmo Colombo Felicita Minjie Sandro Gallazzi Ana Maria Rizzante Carlo De Bernardi e Giovanna Ambrogio Cattaneo e K'heoh Fabrizio Persico Luigi Martini Franco Dell'Oro Guglielmo Spadetto Carlo Torriani Carla Busato Giuseppe Barbaglio Tino Frontini Carlo Tei Giancarlo Politi Franco Cagnasso Franco Cumbo Franco Mella Nevio Viganò Alberto Zamberletti Eligio Omati Vittorio Mapelli Igino Pedretti Gianni Foresti Angelo Da Maren Luigi Carlini Daniele Gastoldi Giampaolo Lecis Gigi Caccia Atzko e Roberto Maggi Maurizio Fioravanti Silvano Fausti Annamaria Cavagnolo Massimo Sacchi Marisa Grilli Laura Nigretti Carlo Masetto Adriano Aldrovandi Alessandro Bonino Maurizio Laffranchi Patrizia Morganti Enrico Paglialunga Carmela Gallazzi Gianna Sergio Serafini Renza Stroppa Carla Barlassina Elda Barlassina Lina Barlassina Simonetta Barlassina Stefano Galbiati Marì Tironi Anna Piva Piera Mazzoleni Anna Rotigni Paola e Nino Bellia Pippo Gliozzo Pina e Riccardo Rodano Elisabetta Carpinteri Francesco Troiano Giovanna Cannata Salvatore Longo Rita Gentile Giovanni Romano Mario Garofalo Elisa Moriggi
Insieme per dire Grazie |
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Un anno fa di anni fa |
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15 marzo 2011
un anno fa moriva Giulio ma niente, neppure la morte, può cancellare il suo sorriso, il vissuto di una esistenza fatta di umiltà e di coerenza, di tenacia e di dolcezza, di silenzio e di sguardo
lo ricordiamo così - semplicemente - senza volerne fare un'icona: Giulio sarebbe il primo a non essere d'accordo, perché "uno solo è il Maestro"
insieme diciamo grazie - a Dio - per un regalo così bello: la sua figura ora riposa in noi
15 marzo 2012 |
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Il progetto |
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"Reverendissimo Superiore Generale e Consiglieri
Noi sottoscritti (p. Armando Rizza, p. Pietro Belcredi, p. Giulio Barlassina) vorremmo presentarvi un progetto di modo di impegno nell'Evangelizzazione al quale ci sembra di sentirci chiamati, dopo l'esperienza fatta da ciascuno di noi, dopo una lunga riflessione e dopo scambi di idee avvenuti tra noi.
Questo nostro 'progetto' non vuole contenere una pretesa di essere il modo migliore in assoluto di esplicare l'attività missionaria, nè - tanto meno - una critica ai modi attualmente assunti dai membri del nostro Istituto, ché anzi vuol essere un assumere in modo più esplicito e concreto proprio quelli che a noi sembrano essere i modi più autentici di presenza
missionaria realizzata dai membri del nostro Istituto.
SCOPO del nostro progetto è sostanzialmente lo stesso che si è sempre prefisso l'attività del nostro Istituto: l'EVANGELIZZAZIONE degli uomini, in ambienti nei quali non è ancora stato annunciato il Cristo, per 'camminare insieme' a questi uomini verso la conoscenza e l'amore del Cristo Salvatore, per mettere in pratica nella nostra vita quotidiana i Suoi insegnamenti.
In altre parole: camminare insieme verso la maturazione dell'Amore (= essere sempre più totalmente per l'Altro), che è dono esclusivo di Dio.
Le attività nelle quali si concretizza quest'opera
di
evangelizzazione possono essere diverse. La preoccupazione maggiore (per non dire unica) del missionario, deve essere quella di esprimere in questa attività l'Amore stesso del Cristo dal quale siamo animati; Amore del quale sono da rilevare le seguenti caratteristiche:
- attenzione a non separare la vita soprannaturale dalla sua base umana;
- amore pieno di MISERICORDIA e comprensione;
- degli uomini, anche non cristiani;
- rispetto dell'azione libera della GRAZIA, sia nelle persone e comunità che accosteremo sia in noi e tra noi;
- pazienza e disinteresse nella ricerca dell'efficacia (che è inseparabile dall'amore che vuole comunicarsi);
- tensione a mettersi sempre sul piano dell'AMICIZIA.
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Per poter realizzare meglio queste caratteristiche dell'Amore di Cristo, prima in noi stessi e tra noi stessi e poi anche in un'espressione esterna nel contempo con gli altri, e questo in un ambiente non ancora evangelizzato, noi ci prospettiamo un'impostazione di vita e di presenza missionaria che avrà questi elementi sostanziali:
1. ci dovremo inserire in un ambiente da UOMINI CON GLI ALTRI UOMINI, senza portare con noi e mediante noi una struttura prefissata, anche sul piano religioso (es.: costruzione di una parrocchia, con opere, ecc.; questo sarà un lavoro che, quando si renderà necessario, noi lasceremo ad altri);
la nostra sarà una presenza di TESTIMONIANZA e di PREDICAZIONE sul tipo di quella di Gesù, che porterà al costituirsi di una COMUNITÀ EVANGELICA, animata dalla fede in Cristo e dall'Amore;
quando sarà venuto il momento in cui questa Comunità dovrà strutturarsi su un piano sociale esterno (= parrocchia), noi lasceremo il posto ad altri;
2. in qualsiasi ambiente verremo destinati dai Superiori (in accordo coi Vescovi locali) e qualsiasi possano essere i mezzi che riterremo opportuno usare per realizzare la nostra presenza, noi dovremo basare la nostra azione apostolica su RAPPORTI UMANI, in uno spirito di AMICIZIA, tenendo sempre ben presente lo scopo di condurre gli uomini (singoli e gruppi) a conoscere il Cristo (l'Amore),a credere in Lui e a trasformare gradualmente la loro vita secondo i criteri del Vangelo;
3. sarà soprattutto la 'NOSTRA VITA' (= il nostro modo di vivere) che realizzerà un'autentica testimonianza evangelizzatrice.
È questo il punto su cui insistiamo maggiormente, come caratteristica della nostra attività missionaria, e per cui ci sentiamo in dovere di chiedere ai superiori che ci permettano e ci aiutino a tentare di realizzare questo nostro 'progetto'.
a) Vita di comunione tra noi, il più profonda possibile, basata su una fede esplicita sul valore della presenza di Cristo in noi e tra noi mediante il Suo Spirito, che fa sì che ogni piccolo gruppo sia 'Chiesa'
Questa vita di Comunione si espliciterà in un 'vivere insieme' (i modi concreti di questo 'vivere insieme' si potranno vedere meglio sul posto), mettendo TUTTO in COMUNE:
- problemi, idee, modi di pensare, ecc., mediante una regolare 'Revisione di vita', lo studio, i momenti di preghiera, …
- l'attività missionaria, che sarà sempre decisa e rivista in comune, in tutti i suoi aspetti;
- l'amministrazione di tutti i mezzi (soldi, roba, ecc.), in una linea di povertà evangelica (che andrà continuamente ricercata).
b) Lo STILE DI VITA (abitazione, cibo, modo di vestire) dovrà essere basato su una profonda umiltà e povertà, in modo che sia facilitata la preminenza dell'Evangelizzazione nei nostri interessi e sia facilitata il più possibile lo stabilirsi di contatti semplici e familiari (non come tra 'ricco e povero', o 'chi può dare e chi riceve') con la popolazione, della quale ci sforzeremo di condividere le condizioni di vita;
c) Per quanto sarà possibile, la nostra piccola comunità missionaria dovrà dare l'ESEMPIO del LAVORO per guadagnarsi il necessario per vivere;
(N.B.: tuttavia le esigenze del lavoro non dovranno mai precedere le esigenze dell'Evangelizzazione, che è sempre la prima preoccupazione e che costituisce lo scopo
ultimo della nostra consacrazione). Questo lavoro lo riteniamo necessario per noi, per essere fedeli allo spirito di umiltà sociale, di semplicità vera e di comprensione profonda dei bisogni e della mentalità della maggioranza delle persone con le quali dovremo vivere.
N.B.: la nostra Comunità di missionari sarà una COMUNITÀ GERARCHICA, nella quale cioè dovrà esserci il 'segno dell'autorità', e quindi ci sarà in essa un 'Superiore' (o responsabile). |
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4. RAPPORTO con l'ISTITUTO e la COMUNITÀ CRISTIANA
I nostri rapporti con l'istituto saranno quelli indicati dalle Costituzioni, con la preoccupazione di non fermarci alla materialità dell'indicazione giuridica.
La decisione definitiva sarà sempre quella dei Superiori dell'Istituto nei confronti sia della scelta del luogo, del tempo di partenza e di permanenza in missione, come anche circa i modi sostanziali della nostra attività di evangelizzazione.
Inoltre dovremo mantenere dei rapporti di comunione concreta con i membri dell'Istituto mediante lo scambio di comunicazioni (i modi verranno ricercati).
Sul piano ECONOMICO, per poter più veramente vivere in un atteggiamento di povertà, vorremmo - per quanto possibile - non sentirci 'con le spalle sicure', ricorrendo all'aiuto dell'Istituto in quanto tale.
Anche per aiutare la Comunità cristiana a sentirci in concreto - quali siamo - gli strumenti della sua 'missionarietà', dovremo essere noi a trovare persone, gruppi, comunità italiane, con le quali stabilire un rapporto di Comunione (anche esterna), che comprenderà anche l'aiuto economico alla nostra attività missionaria, ma questo (aiuto economico) solo entro i limiti del puro necessario, tenendo presente che questo aiuto economico avrà un valore solo se e in quanto sarà l'espressione di una Comunione sul piano completo dell'attività missionaria.
Perciò con queste persone, gruppi, comunità, dovremo mantenere una comunicazione sul tipo di quella che avremo con i membri dell'Istituto.
Con la CHIESA LOCALE in terra di missione.
Chiederemmo i Superiori di trovare un Vescovo di una regione non evangelizzata, che accettasse questo nostro modo di presenza missionaria.
Salve le linee essenziali (indicate sopra) del nostro modo di realizzare una presenza missionaria, noi dovremo stabilire e mantenere con i Vescovo e il Clero quei rapporti che sacerdoti e missionari devono avere, partecipando vivamente alla vita della diocesi.
Sottoponendo alla Vostra attenzione questo nostro 'progetto', restiamo in attesa di una Vostra risposta
p. Armando Rizza p. Pietro Belcredi p. Giulio Barlassina"
Milano, 1970 (?) |
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Le lettere del prima |
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"Carissimi |
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Giovanni e Franco..." |
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"Catiò, 14 febbraio 1971
Carissimi Giovanni e Franco
Mentre Salvatore sta cavando denti a tutto spiano (e voi sapete in quale contesto di 'presenza missionaria' e, soprattutto, con quale spirito lo fa), io (il 'teorico intellettualista') mi metto a scrivere a voi.
Non lo faccio di mia iniziativa, ma come conseguenza del quasi incessante 'comunicare' che facciamo Salvatore ed io, 'comunicare' che si esprime in una comune ricerca (anche a livello di discussione) dell'ESSENZIALE nella nostra presenza qui.
E siccome, dopo ogni espressione del nostro comunicare, si giunge immancabilmente a concludere che l'ESSENZIALE è il nostro FAR CREDITO, da poveri, alla realtà della Comunione che abbiamo nel Cristo Gesù (che lega noi due, il nostro gruppo pimino di Guinea, quelle persone con le quali possiamo 'esprimere' tale fede anche a livello umano, in modo più o meno esplicito, = Comunità di origine, al gruppo umano in cui ci troviamo ora inseriti, e noi tutti con l'umanità), ieri ci siamo proposti di 'esprimere' un po' questa Comunione scrivendo a voi due, che qui in Guinea siete ricordati come coloro che 'esistenzialmente' hanno stimolato i nostri confratelli a intravvedere che l''ESSENZIALE' della Missione è da ricercarsi nella linea della Comunione (chiamatela come volete…).
Da circa un mese sono qui con Salvatore.
Sono venuto qui (mandato da p. Mario) per tenergli compagnia in questo momento molto delicato.
Come già sapete, il suo modo di presenza qui, oltre ad un inserimento diretto con la Comunità Balanta di Sua, ha esigito un atteggiamento 'chiarificatore' nei confronti della 'Praça', specialmente con quelli che pretendono diritti da 'Cristiani'.
Questo ha naturalmente provocato reazioni che si sono espresse in una 'comunella' (una specie di 'cospirazione') che ha presentato alla polizia tutta una serie di 'queixas', tra le quali alcune di carattere politico (queste ultime erano 'necessarie' per sperare in un 'successo'…): il 'caso' non si è fermato al Governatore, ma è stato demandato (addirittura!) al Ministero Ultramarino di Lisbona.
Ora siamo ancora in attesa di una decisione (da più di 40 giorni).
Intanto al Salvatore non è stato rinnovato il 'bilhete' di permanenza in Guinea.
Nonostante l'atmosfera di incertezza e di 'provvisorietà' creata dall'attesa di detta decisione, la vita e il lavoro qui continuano normalmente e abbastanza serenamente, anche perché Salvatore è in atteggiamento di disponibilità nei confronti del suo avvenire (qualsiasi possa essere la decisione che prenderanno le autorità).
Il tipo di 'presenza' di Camilleri (che voi avete potuto accostare un po' ai suoi inizi) mi sembra su una linea di autenticità evangelica (questa 'linea di autenticità' è espressamente ricercata da Salvatore ); e cioè: è innanzitutto un CONDIVIDERE (sulla base della FEDE) la situazione di questi gruppi umani, tra i quali siamo stati mandati come 'strumenti della Comunione'.
Questa 'Condivisione' (come avete potuto vedere anche voi) si ESPRIME per Salvatore in un'attenzione fattiva alle esigenze 'sanitarie' (dall'estrazione dei denti, ai curativi, al trasporto degli ammalati, alla cura dei neonati) e ai problemi di carattere familiare che sorgono dal tipo di rapporti complessi in uso presso i Balantas, problemi che si vanno facendo sempre più coscienti e gravi, soprattutto a livello di alcuni giovani più attenti e sensibili.
[Cfr nota 1, in calce] |
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Questa presenza mediante la 'Condivisione' ha già provocato, da parte del gruppo Balanta, un INTERPELLARE il padre sul 'perché' di questo suo 'condividere'.
La RISPOSTA viene sia dal 'condividere' stesso sia negli incontri a livello di comunità che sono iniziati spontaneamente e ora continuano con normalità.
Infatti, tre volte alla settimana (domenica, mercoledì e venerdì), alla sera, oltre un centinaio di persone in gran parte sposate (uomini e donne, anche alcuni 'homens e mulheres grandes') si ritrova nella scuola di Sua, per un incontro di preghiera; tutto è fatto in lingua balanta e adattato al 'momento' del 'cammino della comunità'; la musica dei canti (ormai numerosi) è opera di un anziano membro della comunità balanta; il resto è opera del Camilleri, che deve dedicare molto tempo alla traduzione in lingua balanta dei testi biblici e loro commenti, aiutato da alcuni giovani.
Così la 'predicazione' (non nel senso biblico della parola) (= una lettura di un dieci minuti) diventa il 'tradursi in parole' dell'ANNUNCIO (che essenzialmente consiste nel 'condividere credendo alla Comunione nel Cristo' = PAROLA di Dio), come uno dei 'mezzi' (o dei momenti) della RISPOSTA del missionario alla 'INTERPELLANZA' sul 'perché' del suo 'condividere'.
Commovente in modo particolare era l'attenzione di tutta l'assemblea di ieri sera, in cui Camilleri ha letto le Beatitudini.
Al lunedì sera c'è un incontro (senza preghiere né canti) a livello di soli adulti (uomini e donne: lunedì scorso ce n'erano una sessantina) in cui si conversa familiarmente sui problemi concreti della vita balanta.
Nell'incontro di lunedì scorso (durato quasi due ore), gli stessi 'homens grandes' hanno tirato fuori il problema dell'Aulle (= Irâ; voi sapete cos'è), inaspettatamente, perché Camilleri di proposito non aveva mai accennato a questo problema tanto delicato per un balanta; e nella lunga conversazione seguita (più tra di loro che con il padre) è venuta fuori chiaramente una loro orientazione ad una sfiducia totale nel valore dell'Aulle (in proposito, diverse giovani coppie di sposi che frequentano gli incontri da tempo hanno smesso spontaneamente i segni dell'Aulle, loro e dei loro bambini).
[Cfr nota 2, in calce] |
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In questa 'presenza missionaria' non manca certo l'altro suo aspetto essenziale: la CONTESTAZIONE (nel senso di opposizione e rifiuto, almeno parziale) nei confronti del missionario e del 'messaggio'.
Contestazione che si esprime in tanti modi e a diversi livelli (non mi riferisco qui al 'caso' provocato dalla 'praça' e descritto sopra, ma alla 'contestazione' all'interno dello stesso gruppo balanta) ed è da questa contestazione che proviene l'autentica SOFFERENZA del missionario (è l'aspetto della CROCE, essenziale ad ogni momento di una vita da 'Chiesa').
In queste settimane di condivisione abbiamo costatato (a livello di 'esistenza') l'importanza (noi due parliamo di 'necessità') della COMUNITÀ APOSTOLICA (non solo a livello 'giuridico'), dell'essere almeno in due (anche se non sempre insieme fisicamente), per un'autentica presenza missionaria; e questo non solo (né soprattutto) per l'utilità che viene da una 'critica costruttiva' ai diversi momenti di detta presenza, ma anche (e soprattutto) per le esigenze di 'comunione concreta' insite nella vita e nella missione dell'apostolo.
In linea con questo, abbiamo rilevato l'importanza di un più espressa 'comunicazione' con i nostri fratelli di Guinea (almeno quelli del PIME) e con altre 'comunità' (possibilmente che siano impegnate nell'azione missionaria), come potrebbe essere la vostra.
Dai vostri scritti (ho potuto leggere, nel mio peregrinare per la Guinea, diverse vostre lettere) ci risulta che (almeno voi due) siete in espressa comunione con noi.
Noi gradiremmo tanto che si intensificasse questa 'espressione della Comunione', attraverso la corrispondenza epistolare e anche attraverso altre vostre 'venute' tra noi (o di vostri compagni).
Questo, oltre al valore fondamentale di una comunione più intensa, a noi di qui potrebbe servire anche in questo senso: voi, che vi trovate in un ambiente di 'studio', di riflessione sulla realtà ecclesiale, potreste (insieme ai vostri insegnanti) aiutarci a 'criticare' il nostro modo di presenza missionaria, soprattutto per quanto riguarda i suoi principi ispiratori, in modo da facilitarci la 'purificazione', per avvicinarci sempre di più all'autenticità evangelica.
(Credo che non penserete ad una 'strumentalizzazione'…).
Già in questo nostro scritto abbiamo accennato ad alcuni elementi ai quali cerchiamo di ispirare la nostra vita.
Salvatore (che durante le nostre lunghe conversazioni prende molti appunti scritti) sta preparando un 'abbozzo' sul come noi cerchiamo di vedere la 'missione'.
Tutti e due sentiamo la necessità di un confronto di questo nostro modo di pensare, con altri, che se la sentano di aiutarci in un'atmosfera di fraternità.
Se voi (e magari i vostri gruppi) ve la sentiste di darci questo aiuto, scrivete a Salvatore (io dovrò lasciare Catiò per ritornare a Bissau il 22 c.m.) ed egli (quando l'avrà pronto) vi manderà detto 'abbozzo'.
Scusateci la kilometricità di questa comunicazione: ci sembra che l'assunto lo richiedesse.
La fatica che vi è costato il leggerci, compensa la fatica nostra nello stendere questa comunicazione (non pensate soltanto alla mia predilezione per le 'encicliche', ma anche la mia innata 'idiosincrasia' per lo scrivere…).
Salutateci l'Equipe e tutti i vostri compagni
A voi due un saluto particolare
Giulio Barlassina" |
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Nota 1
Voi, che avete accostato da vicino Salvatore, sapete bene che non si tratta qui del classico "specchietto" per attirare e imbonire la gente, o di un 'pretesto' per accostarla e per poi 'imbottirla' delle cosiddette 'idee cristiane'… .
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Nota 2
Non si tratta qui della cosiddetta 'distruzione degli idoli'; si tratta invece di un'autentica LIBERAZIONE da una vera SCHIAVITÙ dell'uomo; schiavitù portata dalla PAURA.
Questa LIBERAZIONE viene da una maturazione della FIDUCIA nell'Amore di Dio, che porta il Balanta a percepire che isuoi rapporti con Dio sono sul piano dell'AMORE e quindi ben al di là dei limiti umani (e incapacità umane) di fronte alle 'forze della natura'.
In questa 'liberazione' entra anche una miglior conoscenza delle 'forze della natura' che incominciano ad essere affrontate con mezzi umani (specialmente: cure mediche, medicine, igiene, previdenza, ecc.).
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"Cari amici..." |
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"Cari amici,
aggiungo solo una parola di completa condivisione a quello che Barlassina ha espresso.
Con la sua venuta… almeno a Catiò un nuovo spirito anima la nostra azione.
Non che prima ci fosse 'scirocco', ma attraverso le sue parole stiamo maturando più a fondo quella realtà missionaria che già affiorava dentro di noi.
Tante cose non le so dire, ma le sento.
C'è sempre un amico che le saprà esprimere… vi saluto di cuore.
Salvatore Camilleri" |
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"Carissimi don Carlo |
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e Comunità di Borgo Est" |
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"Catiò, 4 ottobre 1972
Carissimi don Carlo e Comunità di Borgo Est
Ci è giunta molto gradita la vostra lettera indirizzata a p. Mario Faccioli.
Ci fa un grande piacere il fatto della vostra condivisione dei problemi che toccano la nostra comunità di Guinea e in particolare, attraverso p. Salvatore Camilleri, la comunità di Catiò.
Noi siamo qui a Catiò da una decina di giorni per continuare a vivere con la gente di qui la nostra fede nella condivisione dei loro problemi.
Il p. Salvatore ha iniziato questa condivisione fraterna che certamente avete sentito descrivere dal Franco e dallo stesso Salvatore.
Noi possiamo testimoniare quanto profonda è stata questa condivisione specialmente con il popolo Balanta.
Ci siamo riuniti con i giovani balanta di Sua e ci hanno ripetuto in mille modi la loro sofferenza per l'allontanamento del Padre e allo stesso tempo la gioia di avere altri padri che continuino quello che ha iniziato il p. Salvatore.
Noi siamo convinti di non essere venuti qui per realizzare un desiderio personale, ma perché ci sentiamo mandati da una Comunità cristiana che ci ha generati alla fede e ci ha fatti crescere.
Questa comunità è per ciascuno di noi quell'ambiente che ci ha aiutato a vivere la fede.
Sono tutte le persone e gruppi di persone che abbiamo incontrato nella nostra vita e attraverso le quali Dio ha costruito la nostra storia personale.
Noi siamo qui perché ci sentiamo mandati per dire a questa gente, attraverso la nostra vita, la fede che state vivendo.
Fede che è fatta di tutto quello che di buono fate per gli altri e della condivisione e fraternità con i gruppi umani più lontani.
Questo avviene nella vita concreta di tutti i giorni attraverso quell'Amore che vi mettiamo per fare diventare il mondo una famiglia dove tutti si sentono fratelli e figli dello stesso Padre.
Ci sentiamo perciò mandati anche dalla comunità di Borgo Est per quell'aiuto a vivere la nostra fede che abbiamo ricevuto e condiviso (Pedro per la partecipazione e condivisione diretta dei vostri problemi; Giulio per il rapporto di amicizia con don Carlo e con i giovani del PIME che sono passati nella comunità di Borgo Est).
Ci ricordiamo spesso, con commozione, della rappresentanza della comunità di Borgo Est
alla partenza da Linate di ciascuno dei due.
La nostra prima preoccupazione ora è quella di credere davvero.
Credere che è lo Spirito che fa la Comunione tra noi e con le persone.
Credere che quello che conta non è l'essere battezzati o dire la messa, ma è cercare il Cristo incarnato nelle persone e nelle situazioni.
Siamo convinti che la faccia di Cristo la troviamo scolpita nella faccia delle persone che ci circondano.
Per noi quindi il fatto di fare comunione fra noi è indispensabile.
Concretamente lo stiamo realizzando tra noi due e un giovane balanta, Joaquim, che vive con noi e fa da maestro nel villaggio balanta di Sua.
Preghiamo insieme e cerchiamo di lasciarci convertire.
Cerchiamo di estendere questa nostra comunione mantenendo rapporti il più intensi possibili con i nostri confratelli missionari della Guinea.
Scriviamo loro ed ogni tanto andiamo a passare qualche giorno con loro per aiutarli nei vari problemi di apostolato e di impostazione di vita.
Con la gente qui di Catiò cerchiamo di vivere questa comunione cercando di essere il più possibile attenti alle persone, specialmente ai poveri, ammalati e a quelli che sono soggetti a ingiustizia (in questo periodo della semina siamo particolarmente attenti alle famiglie che non hanno riso per mangiare e tanto meno per pagare gli operai che le aiutano nella semina).
Siamo a contatto con tre ambienti differenti, ma che hanno in comune il problema di far fronte alle più fondamentali esigenze della vita e la situazione di sofferenza causata dalla situazione di guerriglia.
- I Balanta di Sua coi quali ci sentiamo già in amicizia per contatti avuti quando c'era ancora il p. Salvatore.
Noi due non conosciamo ancora la lingua balanta, ma una volta alla settimana abbiamo con loro un incontro di preghiera basato sull'ascolto e la riflessione dalla Parola di Dio, con canti composti da uno della comunità e preghiere: il tutto in lingua balanta (Joaquim ci fa da valido interprete).
- La comunità dei Fulas (musulmani): con loro non abbiamo ancora avuto contatti; solo pochi incontri con le singole persone; anche nei loro confronti non intendiamo assolutamente 'convertire', ma cercare una maniera di condividere e metterci a pregare con loro.
Per noi fare il missionario vuol dire cercare delle persone con le quali condividere e volerci bene.
Lo Spirito di Dio è in tutti e cerca di farci diventare una famiglia.
- L'ambiente della "praça": con una mentalità e uno stile di vita tutto particolari.
La maggior parte di loro si dicono Cristiani, ma sono rarissimi i casi in cui la mentalità e la vita risultano animati dalla fede.
Anche tra di loro però abbiamo incontrato uno che, pur avendo tre mogli, è un esempio di fede profonda.
A sentirlo parlare delle vicende della sua vita e a manifestare la fede che ha dentro, sembra di leggere il libro di Giobbe.
Con i pochi (una dozzina) che vengono alla messa domenicale stiamo iniziando un discorso sulla linea della comunità fraterna.
Prima la ricerca della vita di fede (= l'essenza del Vangelo), poi si amministreranno i sacramenti.
Oltre ai contatti con le singole persone - e pensiamo tra poco anche con le famiglie - cerchiamo di portare avanti questo discorso durante la liturgia della Parola / alla messa della domenica), fatta in maniera molto famigliare come conversazione sulla Parola di Dio prima di mettere i paramenti per la liturgia eucaristica.
Uno dei problemi che noi due sentiamo più vivamente, perché condiziona fortemente il nostro desiderio di condivisione, è quello della struttura in cui ci troviamo inseriti e della quale ci è per ora impossibile prescindere.
Tra gli elementi più condizionanti di questa struttura risultano maggiormente:
- la nostra posizione di 'privilegio', dovuta a una lunga tradizione europea del modo di concepire il 'prete' e al modo in cui è stato ed è presente da secoli il 'bianco' qui in Guinea;
- il fatto di abitare una bella casa, che se anche povera nei confronti della normalità delle case italiane, è un lusso nei confronti dell'abitazione di questa gente;
- l'essere stipendiati dal Governo Portoghese
(con conseguenti
condizionamenti).
In tale situazione ci sembra che l'autenticità evangelica richieda da noi di vivere la povertà nella linea della solidarietà, cioè mettendo praticamente a disposizione di tutti quello che abbiamo e soffrendo per la posizione di privilegio a cui siamo costretti.
I problemi pratici che dobbiamo e dovremo affrontare giorno per giorno, per essere fedeli alla ricerca di questa autenticità evangelica,
sono
numerosi.
Pensiamo che il dialogo che noi gradiremmo mantenere con la comunità di Borgo Est ci possa aiutare molto in questa nostra ricerca.
Soprattutto confidiamo nel vostro ricordo e nella vostra solidarietà sul piano della fede, per non chiuderci troppo alla grazia che lo Spirito di Cristo dà sempre in abbondanza per il costituirsi della famiglia di Dio.
Noi vi assicuriamo la nostra unione e il nostro
frequente e vivo
ricordo.
Un saluto a tutti, nel Cristo Gesù che ci salva.
Vostri Pedro e Giulio" |
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"Carissimo |
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don Giuseppe Barbaglio" |
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"Lì, 5 maggio 1974
Carissimo don Giuseppe Barbaglio
Approfitto della venuta in Italia di due Suore che lavorano nelle nostre missioni per comunicarti - finalmente - qualcosa circa gli argomenti che sarebbe utile trattare nel nostro incontro comunitario del prossimo luglio.
Prima di passare a tale assunto, alcune notizie.
Certamente avete appreso e forse anche seguito i recenti avvenimenti di Lisbona.
Il colpo di stato della Giunta Militare (con a capo il Gen. Spinola, già governatore qui in Guinea), con la conseguente soppressione della DGS (= polizia segreta) e liberazione dei detenuti politici, fa sperare che le cose comincino a muoversi un po' dall'empasse in cui si trovavano, anche per quanto riguarda la situazione qui nell'Ultramar.
Frattanto qui la guerra continua e la situazione è più o meno quella che hai trovato qui tu due anni fa.
Speriamo che l'evolversi delle cose in questi prossimi due mesi non ci impedisca di realizzare il nostro incontro comunitario e che tu non abbia difficoltà ad ottenere in tempo il permesso di venire qui.
Riguardo agli argomenti da affrontare nel nostro incontro, ti posso dire quanto segue.
Dai contatti avuti con i miei confratelli, ho avuto una chiara segnalazione dell'urgenza di presentare e affrontare nel prossimo incontro una problematica che è molto viva in molti di noi, naturalmente con sfumature e orientamenti diversi.
Fondamentalmente tale problematica si allinea sulla attuale 'CRISI DELL'EVANGELIZZAZIONE', di cui parla chiaramente anche il Documento preparatorio al prossimo Sinodo dei Vescovi ('L'Evangelizzazione del mondo contemporaneo'; cfr. testo in: Regno-docum. 15/1973, pagg. 390 ss.).
Per noi qui, tale "crisi" viene aggravata dal fatto che la necessaria 'conversione' di mentalità e atteggiamenti esigita per la Chiesa attuale (e, quindi, soprattutto per noi missionari), viene a incontrarsi e a scontrarsi con un tipo di impianto della presenza e attività missionaria creato e continuato sulla linea dell'antica concezione - cosiddetta 'saveriana' - delle missioni.
Secondo molti di noi, una nostra 'conversione' ad un annuncio che sia attualmente più adeguato alle esigenze evangeliche e alle esigenze dei nostri fratelli africani, non è possibile senza un contemporaneo smantellamento delle vecchie strutture e il porsi concreto di nuovi modi di presenza coerenti con tale conversione di mentalità (= rapporto dinamico tra mutamento di mentalità e mutamento di strutture).
Come vedi, si tratta di una problematica che è di tutta la Chiesa attuale, ma che per noi è particolarmente grave, date le sue pesanti incrostazioni che l'impianto missionario ha dovuto ulteriormente subire dal prolungarsi della presenza coloniale e dai particolari legami e dipendenze in cui la Chiesa storicamente si è lasciata impelagare finora, specialmente nell'Ultramar portoghese e dai conseguenti e naturali influssi negativi che tutto questo ha comportato e comporta sulla mentalità e sugli atteggiamenti di noi missionari.
Tu conosci già abbastanza bene la composizione 'umana' della nostra comunità pimina di Guinea (anche i cinque nuovi che si sono aggiunti in questi ultimi tempi).
Di fronte alla suddetta problematica, ci sono naturalmente atteggiamenti diversi, che mi sembra di poter schematizzare (Att.!! Si tratta
di 'schematizzazione'!) così:
- alcuni non avvertono una forte esigenza di mutamenti, convinti che la linea seguita finora sia sostanzialmente valida ancora, accettando - per dovere di obbedienza - di cercare di adattarsi a quei mutamenti (da altri ritenuti solo 'accidentali') sul piano pastorale e liturgico, che continuamente vengono richiesti dai documenti ufficiali della Chiesa del post-Concilio;
- altri avvertono vivamente l'esigenza di un mutamento, sia di mentalità che di strutture; sembrano però orientarsi su una linea 'riformista', cioè di graduali mutamenti, in attesa che, con l'evolversi della situazione politica e sociale, ci vengano imposti dall'esterno dei mutamenti radicali;
- altri ancora, si trovano in un grande disagio interiore e spirituale di fronte all'attuale presenza della Chiesa in Guinea e di fronte a quelle che essi avvertono essere le esigenze della gente di qui (anche se, naturalmente, non esplicitamente avvertite dalla stessa gente);
questi confratelli si stanno chiaramente orientando a delle scelte radicali, e cioè a ricercare uno smantellamento sostanziale delle attuali strutture e impianti, ricercando contemporaneamente nuovi gesti, nuovi modi concreti di presenza e di attività missionaria, coerentemente con il maturarsi di una 'conversione' della loro mentalità.
Naturalmente le soluzioni e le scelte concrete di questi ultimi variano in base alla diversa configurazione della loro personalità, alla loro storia precedente e alle loro capacità e possibilità sul piano umano e spirituale.
Qualcuno (tra questi ultimi) pensa anche che - presentandosi come praticamente impossibile, entro una ragionevole scadenza di tempo, un mutamento adeguato - si imponga per lui l'esigenza di lasciare fisicamente l'attuale situazione, per cercare un modo di servizio all'annuncio che ritiene più coerente con le esigenze attuali dell'umanità e della Chiesa.
Penso che questa descrizione che ti ho fatto (anche se succinta e involuta nell'espressione), sia sufficiente per te, per pensare a quale tipo di aiuto ti sembrerà meglio portare alla nostra comunità con le tue comunicazioni e con il tuo inserirti vivamente (come hai fatto l'altra volta) nel nostro travaglio di ricerca, che questa volta si prospetta molto vivace e con possibilità di decisioni abbastanza 'gravi' da parte di alcuni di noi.
Io penserei che sarebbe molto pertinente alla nostra situazione che tu ci aiutassi a capire meglio:
1. che cosa significhi e come dovremmo concepire e sentire il 'NUOVO' portato da Cristo;
2. quale tipo di mentalità (nei suoi elementi più essenziali) comporti questo 'NUOVO';
3. quali implicanze (di mentalità, di atteggiamenti e di gesti concreti) abbia per la 'Chiesa che annuncia' ( e in particolare per noi missionari) l'Annuncio del Vangelo (cfr. specialmente: Filipp. 2,5-11 = adesione alla volontà del Padre, che esige 'spogliamento' per essere su un piano di 'parità' umana con tutti gli uomini, ecc.
- N.B.: qui potrebbe anche entrare la trattazione dell'argomento proposto da uno di noi: 'Evangelizzazione come attenzione alle esigenze socio-culturali e religiose della gente con cui viviamo');
4. il tutto applicato alla situazione concreta in cui attualmente ci troviamo noi missionari (e la Chiesa in genere) qui in Guinea, in vista di una spassionata revisione della nostra mentalità e delle nostre strutture di fronte alla Parola di Dio;
5. aiutarci a chiarire il necessario rapporto 'dinamico' tra 'conversione' della nostra mentalità e gesti concreti di superamento sul piano delle strutture;
6. sarà bene dare qualche indicazione dei criteri da seguire per chi - in coscienza - si è orientato o si sta orientando a delle scelte personali che apparentemente possono risultare di 'rottura', ma che di fatto possono essere esigenze imposte a lui da una ricerca di conversione personale a servizio della Comunione e della Missione nel momento attuale della Chiesa e della sua vita personale.
Data la 'gravità' e la delicatezza di tale nostra problematica, p. Faccioli e io abbiamo ritenuto opportuno invitare a presenziare al nostro prossimo incontro anche uno dei membri della Direzione Generale dell'Istituto.
Attendiamo una risposta in proposito.
Nel caso fosse affermativa (e ci giungesse in tempo utile), ti daremo comunicazione in modo da poter combinare - se possibile e se lo riterrai opportuno - un contemporaneo arrivo qui di te e del padre della Direzione Generale.
Comunque questo non deve assolutamente intralciare i tuoi programmi personali.
Qualora desiderassi ulteriori specificazioni circa gli argomenti da trattare, scrivimi al più presto.
Ringraziandoti ancora per la tua disponibilità a 'darci una mano', ti saluto fraternamente con un arrivederci tra neppure due mesi (tieni presente che l'incontro si potrà incominciare il giorno 3 luglio, mercoledì).
Al mio saluto si unisce espressamente quello, altrettanto caldo e riconoscente, di p. Mario Faccioli.
Ricordiamoci al Signore Aff.mo p. Giulio Barlassina" |
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Missionari della Guinea riuniti nella Casa del PIME a Bissau nel 1974, in occasione di quell'"incontro comunitario di riflessione", cioè leggi "consiglio di guerra", con p. Giuseppe Barbaglio, di cui al precedente accorato ultimatum.
Per Giulio - in alto al centro con quel suo consueto appena accennato sorriso da "tu continua pure con quello che stai facendo, che tanto qui t'assicuro tutto bene, quindi non preoccuparti e anzi stammi sereno" - con la ormai constatata certezza di non risposte dalle gerarchie, tempo amaramente sofferto di improcrastinabili decisioni personali. |
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Le dimissioni |
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da Superiore Regionale |
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della Guinea Bissau |
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"DICHIARAZIONE
Presento a voi le mie DIMISSIONI dall'incarico di Superiore Regionale.
È una decisione, questa, a cui sono giunto già da diverso tempo e in seguito ad una prolungata riflessione e valutazione dei 'pro e contro', fatta - almeno nelle mie intenzioni - in una ricerca della volontà di Dio, cioè delle esigenze nei miei confronti da parte della Chiesa, della missione,
di questa nostra comunità.
Accenno solo ad alcuni motivi (o meglio: ad alcune linee di motivazione) che mi hanno indotto a prendere questa decisione.
1° Ho costatato le mie incapacità umane a gestire (o amministrare) una situazione e un impianto tanto complessi, quali hanno ora la nostra presenza e attività missionarie; gestione pur ridotta entro i limiti di competenza di un Superiore Regionale, quali sono indicati dal nostro Istituto.
Se siamo riusciti, in questi due anni, ad arrivare fin qui, devo riconoscere che è solo grazie all'impegno e alle capacità di p. Mario Faccioli.
Non mi riferisco solo, nè tanto, agli aspetti economici e materiali in genere, ma soprattutto agli aspetti che più direttamente toccano le persone (destinazioni, mutamenti, orientamenti, ecc.).
Ora, in un 'tandem', non è onesto che una sola ruota porti tutto o quasi tutto questo peso umano.
Per di più, p. Mario oltre alla salute, ci sta rimettendo la sua persona, che - da quanto mi risulta - fondamentalmente non è stata e non è orientata, psicologicamente e spiritualmente, a ridursi a questo tipo di lavoro.
2° Penso però che le motivazioni più profonde di questa mia decisione siano quelle che vengono da un altro piano di costatazioni.
Ognuno di noi è fatto a suo modo, sia sul piano umano, sia sul piano cristiano ed ecclesiale.
Ognuno ha una sua propria sensibilità nel modo di valutare e reagire di fronte alle situazioni o realtà oggettive.
Ciò dipende da numerosi fattori: dal temperamento, dalla formazione ricevuta, soprattutto dalla storia che ciascuno si è trovato a vivere provvidenzialmente e in seguito a scelte umane sue e della comunità in cui storicamente si è trovato incluso.
E ognuno, pur cercando di dare il giusto valore e peso al modo di pensare e di sentire degli altri di fronte alla stessa realtà oggettiva, pur dando il giusto valore e peso alle indicazioni che, in proposito, gli vengono dalla sua comunità attuale e dalla società in cui si ritrova a vivere, alla fine è sempre in base alla sua coscienza personale - condizionata sostanzialmente dal modo in cui egli è fatto (come dicevo sopra) - che egli dove emettere delle valutazioni e reagire con scelte e decisioni.
Ora, io, alla mia età (44 anni suonati) e con il tipo di storia (o di esperienza) che la Provvidenza e le varie scelte umane mi hanno condotto a vivere finora, ho costatato e costato che non riesco assolutamente a ritrovarmi, con un sufficiente equilibrio psicologico e spirituale, nel tipo di presenza e di attività missionaria che ha attualmente la Chiesa, specialmente qui in Guinea, sia per le strutture che tale presenza e attività missionaria è venuta ad assumere lungo tutta la sua storia, sia per la mentalità implicata in tali strutture.
Sarebbe troppo lungo e anche fastidioso soffermarmi adesso a descrivervi i dettagli di questo mio fondamentale disagio psicologico e spirituale e dei vari elementi che lo provocano (occorrerebbe scrivere un grosso libro per tentare di fare questo in modo sufficientemente adeguato).
Solo dico questo: ho costatato, in questi due anni di permanenza in Guinea, che io personalmente (insisto su questo 'personalmente', perché non si abbia l'impressione che io voglia giudicare e tanto meno condannare il diverso modo di sentire degli altri) sento che il mio atteggiamento nei confronti delle persone (specialmente della gente di qui) e delle situazioni in cui devo vivere e agire, è troppo condizionato negativamente dalle strutture in cui mi devo inserire se voglio restare qui e lavorare insieme a voi;
mi sento troppo costretto a portarmi addosso la veste che impongono queste strutture e sento, perciò, che il mio rapporto umano e cristiano con la gente e con le situazioni è sostanzialmente condizionato;
mi sento come uno che deve presentarsi agli altri portando addosso una maschera, che gli impedisce di essere se stesso;
mi sento come uno che, soprattutto, è strumento per presentare agli altri una struttura, un'istituzione umana, piuttosto che un annunciatore e un comunicatore di una fede, di una vita.
Capirete bene che, in tale mia situazione di sostanziale non accettazione del tipo di presenza e attività missionaria che ha la Chiesa qui in Guinea, non è onesto continuare ad assumermi un incarico quale quello di Superiore Regionale.
Perché: o sarei portato ad imporre agli altri il mio modo di pensare e di sentire; e questo non è, né umanamente né, tanto meno, ecclesialmente, giusto;
o sarei costretto ad andare continuamente contro la mia coscienza;
e questo pure è altrettanto non giusto.
E vi confesso che spesso - posso dire: sempre - in questi due anni ho sentito fortemente questo intimo disagio (o conflitto), ogni volta che sono dovuto intervenire ad esercitare le mie funzioni di Superiore Regionale.
3° Riguardo al lavoro, o funzione di 'animazione' che mi sembrava essermi stato indicato e richiesto da voi quando si è discusso - due anni fa - sulla nomina del 'tandem', devo dire questo.
Nell'esperienza di questi due anni, ho toccato con mano la mia incapacità a svolgere questa funzione nei confronti della nostra comunità attuale.
- L'emotività e l'impulsività del mio temperamento mi impediscono di stabilire una adeguata atmosfera di dialogo con le persone la cui sensibilità e mentalità è differente dalla mia;
- il mio modo di pensare e di sentire in cose fondamentali per la nostra comunità, (modo di pensare e sentire) molto differente da quello di una buona parte dei componenti la nostra comunità attuale - unitamente alle deficienze del mio temperamento sopra accennate -, fa sì che un mio tentativo di svolgere la funzione di animatore, porti più a delle divisioni nella nostra comunità, che non a quell'unanimità a cui invece tale funzione dovrebbe portare;
- ad aggravare ancora di più le difficoltà già create dagli elementi qui sopra segnalati, si aggiunge il fatto - da me chiaramente costatato - del modo in cui io personalmente sono sentito da diversi di voi, in base ai giudizi (o alla 'fama') che hanno preceduto, accompagnato e seguito la mia venuta qui in Guinea.
È un fatto naturale, questo, che capita a tutti e per tutti; i giudizi (che possono essere anche giusti) che vengono espressi nell'ambiente in cui precedentemente uno si è trovato a vivere e a lavorare, lo accompagnano dovunque.
Per me, ho notato che certi giudizi negativi, circa la mia mentalità, espressi dagli ambienti d'Italia, hanno creato, in diversi di voi, un istintivo (e comprensibile) atteggiamento almeno di pregiudiziale 'riserva', se non proprio di rifiuto o di difesa.
Tutto questo - come già dicevo sopra - fa sì che un lavoro di animazione svolto da me comporti più aspetti negativi che non aspetti positivi per la nostra comunità attuale.
Quindi è giusto e onesto che, per il bene della nostra comunità attuale, io mi ritiri da tale funzione.
In coscienza sento che - dopo tutto il travaglio attraverso cui sono passato per giungere a questa decisione - non potrò più ritrattare queste mie dimissioni, qualsiasi possano essere le valutazioni o le considerazioni che voi (o anche i Superiori maggiori) doveste fare in proposito.
Giulio Barlassina" |
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Giulio in un ulteriore incontro con i confratelli del PIME a Bissau, Guinea.
Emblematica la postura di chi non sia più partecipe, già l'aria palesemente stanca, anzi spossata, sorpresa ed assente, di chi si ritrovi svuotato, smarrito e solo a gridare nel deserto, sempre più consapevole di voler rimanere ancora per poco Superiore Regionale o essere missionario PIME - "la" seconda scelta d'una vita! |
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Analisi sulla situazione |
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della Guinea Bissau |
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"RELAZIONE
Avendo costatato che la mia problematica è presente in diversi membri della nostra comunità, anche se con accentuazioni e sfumature diverse, creando situazioni di forte disagio interiore ed esterno, credo sia utile tentare di indicare qui alcuni elementi dai quali è provocata questa problematica.
Si tratta di un semplice abbozzo di analisi della nostra situazione, che necessariamente non può e non vuole essere completa e che vi prego di ritenere come mio personale, quindi con tutto quel beneficio di inventario che può essere dato al mio particolare modo di pensare, di sentire, con tutte le sue limitazioni e possibili sbagli.
Necessariamente, questa mia breve analisi, si ridurrà a rilevare soltanto alcuni aspetti negativi (o almeno: che a me risultano negativi).
Questo potrebbe dare l'impressione di un certo 'manicheismo' che sta alla base di questa analisi; cioè l'impressione che si giudichi completamente negativo tutto quanto si è fatto e si fa da parte della Chiesa e della nostra comunità in particolare, qui in Guinea; o l'impressione che si pretenda di avere, qui e subito, una Chiesa perfetta, o un nostro modo di pensare ed agire perfetto.
Ma sono certo che ognuno di voi saprà integrare la necessaria parzialità di quanto verrà detto qui, in una visione più vasta, nella quale sono presenti tutti gli elementi positivi e, soprattutto, in una visione che tiene presente la naturale gradualità e la relatività di ogni tentativo umano nel piano del Regno di Dio. |
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PREMESSA (= Una CONSIDERAZIONE PRELIMINARE)
Credo che tutti siamo convinti che tutta la Chiesa sta vivendo un momento di 'crisi dell'evangelizzazione' (= 'crisi', che non indica necessariamente qualcosa di negativo, ma un momento di 'passaggio'...).
Per chi non fosse convinto personalmente e interiormente di tale situazione di 'crisi dell'evangelizzazione', penso possa bastare quanto dice il documento preparatorio ufficiale per il Sinodo Generale dei Vescovi, che si terrà quest'anno a Roma, mandato a tutti i Vescovi dalla Segreteria Generale del Sinodo, intitolato 'L'Evangelizzazione nel mondo contemporaneo' (cfr. Regno-Doc. 15/1973, p.390ss.), il cui testo è tutto imperniato sulla seguente costatazione:
'La crisi dell'evangelizzazione non è in nessun modo superabile attraverso un semplice adattamento dell'attività della Chiesa nel mondo moderno.'
(Parte
II,
Introduzione).
Si tratta innanzitutto di una crisi delle motivazioni dell'attività evangelizzatrice.
Il Concilio Ecumenico Vaticano II (ma, ancor prima del Concilio, l'intera teologia) ha svuotato l'antica concezione (o motivazione) delle missioni (chiamata 'motivazione saveriana', da S. Francesco Saverio, che è stata una delle figure che si sono imposte come modello nella storia della Chiesa in questo tipo di attività missionaria).
Concezione secondo la quale le missioni presumevano di essere portatrici insostituibili della salvezza per i pagani 'giacenti nelle tenebre del peccato e dell'idolatria'.
I missionari credevano semplicemente di strappare anime dall'inferno, senza altra alternativa che quella che essi proponevano.
Ora il Concilio, dicevo, ha svuotato tale concezione, affermando la presenza della salvezza tra tutti gli uomini (affermazione questa che andrebbe approfondita, chiarita, esplicitata adeguatamente).
Inoltre le idee conciliari (che non sono semplici idee teologiche o cerebrali...)
- sul Dialogo,
- sull'attenzione all'uomo nella sua Laicità,
- sulla Libertà di coscienza,
- sul rapporto Chiesa-mondo,
sono idee che chiaramente si oppongono all'antica concezione missionaria, facendone crollare diverse conseguenze e, in particolare, il cosiddetto 'proselitismo'.
Il proselitismo, inteso come metodo di aggressione dall'esterno della compagine pagana, come tentativo di 'convertire' i singoli individui strappandoli della loro originaria zona d'influenza, risulta ora che non è un liberare, bensì può ridursi ad un sottomettere gli uomini ad un regno, ad una potenza che è ancora di questa terra, anche se si denomina cristiano.
La conclusione cui porta logicamente tutto il pensiero del Concilio Vaticano II è questa:
'Solo il servizio disinteressato - e non l'amore della propria affermazione - può spingere la Chiesa all'annuncio'.
Indicazione questa che può rimanere molto generica e molto teorica e che le cosiddette nostre 'buone intenzioni' facilmente possono distorcere nella sua stessa sostanza.
Penso che sia proprio per questo, per evitare questo pericolo di distorsione, che il sopracitato documento di preparazione al Sinodo richiama chiaramente i Vescovi (e quindi tutti noi) sulla necessità di ripensare a fondo la missione di annuncio, mettendo in causa perfino le parole più sacra della tradizione cristiana, quali: salvezza, fede, conversione, primato di Cristo, ecc.
E qui, evidentemente, non si tratta di semplici parole, né di una semplice riflessione e revisione a livello di teoria teologica; si tratta di rivedere e riformare tutta una mentalità, in un modo radicale (proprio perché i termini di salvezza, fede, conversione, primato di Cristo, ecc. sono alla radice stessa della vita e della mentalità cristiane); mettere in causa, rivedere, riformare tale mentalità, per derivarne nuove motivazioni o giustificazioni dell'annuncio del Vangelo; nuove motivazioni che, naturalmente, comporteranno nuovi stili, nuovi modi di presenza e di attività missionaria, oltre e prima ancora che nuovi metodi.
Questa lunga premessa (o considerazione preliminare) l'ho fatta per aiutare a comprendere come possa essere naturale o almeno comprensibile che diversi di noi avvertano per loro questa stessa 'crisi dell'evangelizzazione', del loro 'essere missionari', che è avvertita a livello di tutta la Chiesa. |
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Alcuni PUNTI DI ANALISI della nostra SITUAZIOVE ATTUALE (così come la sento io.)
I) Nessuno di noi, credo, può negare che la Chiesa Cattolica, qui in Guinea, in tutta la sua struttura umana, ha assunto e mantiene una posizione di privilegio e di potenza, specialmente a livello dei più diretti responsabili della Chiesa, quali siamo noi missionari.
Posizione di privilegio e di potenza che, agli occhi della gente di qui e in modo oggettivo, ci inserisce nella classe dominante.
Posizione di privilegio e di potenza, resa macroscopica qui in Guinea dalla lunga presenza coloniale dei bianchi e dai forti legami che la Chiesa ha stabilito e mantiene con le strutture e il potere coloniale, in seguito all'Accordo missionario e soprattutto in seguito al modo in cui qui ci si è serviti di tale Accordo missionario.
Basti pensare a questo: il diritto di concessione (di terreni, di aiuti finanziari e larghe facilitazioni da parte delle strutture governative) e la presunta esigenza di assistenza religiosa ai bianchi e ai neri integrati coi bianchi, ha portato e porta ancora i missionari a impiantare delle grosse strutture (anche materiali) sulla linea delle esigenze dei nostri ambienti europei di 'cristianità', prima ancora di avere iniziato un adeguato lavoro di evangelizzazione dell'ambiente africano.
Ma al di là e prima ancora di questo effetto che ho segnalato nell'esempio portato, tale posizione di privilegio e di potenza toglie alla Chiesa e a qualsiasi missionario che è inserito nell'attuale struttura, quello che secondo me sta alla base dell'annuncio del Cristo; e cioè: la parità sul piano umano con i fratelli di qui, tra i quali diciamo di essere venuti per annunciare il Cristo.
E la mancanza di tale parità rovina già alla radice il rapporto umano, personale con la gente di qui, alla quale ci presentiamo già con la veste e l'atteggiamento di 'superiori', di autorità.
E qualsiasi di noi che viene qui e si deve inserire in questa struttura di Chiesa, nonostante tutte le sue migliori intenzioni, è costretto a portarsi addosso questa veste di superiorità ed è quindi costretto a testimoniare con una grande parte della sua vita, proprio il contrario di quanto annuncia, con la parola e vorrebbe testimoniare con il sacrificio che ha fatto e fa della sua vita; e cioè: il 'Cristo che, pur essendo in forma di Dio..., spogliò se stesso, prendendo forma di servo, facendosi uguale agli uomini...'.
II) Mi sembra utile rilevare che la sopraddetta posizione di privilegio e di potenza - che ci viene messa addosso da questa struttura di Chiesa qui in Guinea - viene ad aggiungersi e ad aggravare enormemente quei condizionamenti negativi che portiamo in noi stessi già dal momento della nostra partenza dal nostro ambiente di origine per venire qui.
Permettetemi di accennare solo a qualcuno di questi condizionamenti, che tocco con mano essere molto forti in me e mi sembra di aver costatato che giochino non poco negli atteggiamenti degli altri miei confratelli.
1) Noi (anche i più giovani) veniamo da un ambiente e da un tipo di formazione che non ha messo in noi un adeguato atteggiamento critico nei confronti di quanto pensiamo (o diciamo) di sapere e di credere.
E mi spiego: da quanto abbiamo appreso (o studiato) e dal modo e dall'ambiente in cui l'abbiamo studiato e appreso, noi siamo usciti con la convinzione pratica (anche se non teorica) di essere i possessori della conoscenza della verità cristiana.
Questo ci porta inconsciamente ad attribuire alla nostra conoscenza e a quanto esprimiamo di questa conoscenza, l'infallibilità che appartiene solo alla Chiesa in quanto comunità di credenti, e alla quale infallibilità io, come singolo, partecipo solo nella misura in cui sono di fatto in tensione a vivere nella Chiesa e alla maniera della Chiesa, non nella misura in cui io conosco intellettualmente una dottrina, o nella misura in cui io ripeto - più o meno meccanicamente - quello che penso essere l'insegnamento del Magistero.
In altre parole - per cercare di chiarire questo mio pensiero - non siamo abbastanza convinti, o troppo spesso non siamo capaci di tener presente che: 'tutto quello che io dico - o posso dire - di Dio, è sempre un uomo che lo dice' (Karl Barth).
Di qui la facilità con cui assumiamo atteggiamenti pratici che possiamo definire da 'despota' in campo religioso, o da 'inquisitore clericale'...
2) Un altro dei tanti condizionamenti negativi che portiamo con noi dalla nostra partenza e che viene fortemente aggravato dalla posizione di privilegio in cui ci mette la struttura della Chiesa qui in Guinea, e la differenza di cultura tra noi e la gente alla quale diciamo di volere annunciare il Vangelo; differenza di cultura che è un dato naturale e anche positivo, ma che viene reso negativo dal fatto che non siamo stati adeguatamente formati e sensibilizzati a saper valutare i valori di altre culture diverse dalla nostra e a tenere presente l'estrema relatività dei valori della nostra cultura.
Il fatto di venire da una cultura molto sviluppata sul piano intellettuale e tecnico (ma non so quanto, proporzionalmente, sul piano del sentire vitalmente i fondamentali valori umani), e il fatto di avere avuto noi stessi una particolare formazione intellettuale e tecnica, ci porta istintivamente (e spesso inconsciamente) a sentirci 'superiori' a questa gente, anche sul piano prettamente umano.
E questo pure si traduce poi in atteggiamenti pratici di 'padronanza' nei nostri rapporti con la gente di qui, facendo sentire ad essa il 'peso' della nostra presunta superiorità.
3) Io personalmente sento molto fortemente tutto un complesso di condizionamenti, che porto con me dalla mia partenza dall'ambiente italiano; complesso di condizionamenti che si potrebbe descrivere così:
L'ambiente di 'cristianità' in cui sono nato e sono stato formato, mi ha portato e mi porta a dare come 'scontate' troppe cose fondamentali, che invece non si possono dare per 'scontate', ma esigono di essere sperimentate e vissute in concreto continuamente.
Per esempio: io ho dato e do troppo per 'scontato' che noi già siamo 'Chiesa'; ma devo riconoscere non ho avuto la possibilità (certo anche molto per colpa mia) di sperimentare in concreto il vivere da Chiesa, vivere da Chiesa che appunto mi fa essere Chiesa.
In un certo senso, sono stato 'alienato' da tutto un complesso di strutture che avevano già deciso tutto per me, su un piano giuridico, fino alla condivisione dei beni spirituali e materiali.
E così non ho avuto la possibilità di sperimentare in concreto e vitalmente quell'essere 'un cuor solo e un'anima sola', quell''aver tutto in comune', quello 'spezzare il pane di casa in casa rendendo grazie a Dio', in una comunità a misura d'uomo, basata su una fede, una speranza, una carità non disincarnate, ma vissute 'supponendo la natura' (= gratia supponit naturam); una vera comunità che così e solo così diventa un'anticipazione, un segno, un preannuncio di quello che sarà il Regno dei Cieli.
Almeno non ho avuto la possibilità di sperimentare questo in modo sufficientemente adeguato a quello che secondo me dovrebbe essere il mio compito di missionario, di annunciatore e testimone del Cristo (che non è una dottrina ma una realtàvissuta e da vivere).
E così noi (pensando che anche altri si trovino in queste mie stesse condizioni), venendo qui come missionari, partiamo - con la gente di qui - da un punto in cui si danno troppo per 'scontate' queste realtà fondamentali e non siamo in grado di diventare noi una 'proposta' ad essi di quello che in concreto è un cammino cristiano, ecclesiale, comunitario, non avendolo fatto noi questo cammino (almeno in modo sufficientemente adeguato al nostro compito di missionari).
Mi sembra che il Documento di preparazione al Sinodo dei Vescovi, invitando a quella revisione radicale dei nostri modi di pensare, di sentire e di vivere, si voglia riferire proprio a questo pericolo - nel quale facilmente cade una società religiosa come la Chiesa - di dare troppo per 'scontate' certe realtà fondamentali che non si possono mai dare per scontate, perché sono la vita stessa della Chiesa.
III) La struttura che ha attualmente la Chiesa Cattolica qui in Guinea e nella quale è costretto ad inserirsi chiunque venga qui ora ufficialmente come missionario, oltre a condizionare radicalmente (secondo me) la nostra missione di annuncio del Cristo, imponendoci una posizione di privilegio e potenza, comporta anche altre conseguenze molto negative sul piano umano, evangelico ed ecclesiale.
Comporta tali conseguenze negative, sia direttamente, sia indirettamente; direttamente: impedendoci dei gesti da compiere e che non possiamo non compiere, se non vogliamo essere radiati, anche fisicamente, da tale struttura; indirettamente: attraverso quel processo di più o meno lenta integrazione a cui qualsiasi uomo è sottoposto quando deve continuare a vivere inserito in determinate strutture.
Anche qui mi permetto di accennare a qualcuna di queste conseguenze negative.
1) Ci impedisce di avere - oppure rende praticamente inefficace in chi lo ha - l'atteggiamento umanamente ed evangelicamente critico nei confronti di tanti gesti, che costituiscono il contesto concreto della nostra presenza e del nostro lavoro.
Prendiamo ad esempio le diverse attività, cosiddette di 'promozione culturale, economica, sociale'..., che pure rientrano - almeno come aspetto complementare, o integrante - in una presenza e in un'opera evangelizzatrice.
E tra queste, scelgo l'esempio della scuola.
La struttura della Chiesa - unitamente ad una certa nostra mentalità - ha portato noi missionari a gestire direttamente un buon numero di scuole, con la condizione e l'obbligo che in esse sia impartito un tipo di istruzione che da tutti i competenti (e anche da molti di noi) è ritenuto come sostanzialmente contrario a diritti fondamentali dell'uomo, perché destinato esplicitamente ad imporre agli alunni (e non solo a loro) una cultura del tutto estranea alla loro, comportando così un violento sradicamento della persona dal proprio ambiente e la conseguente distruzione delle culture originarie.
E noi ci siamo adattati e ci adattiamo, anche senza volerlo, ad essere strumenti di questo che è considerato un autentico male per la persona umana.
Né bastano a salvarci dalla collaborazione (materiale) a questo male gli 'scopi' o i fini che, nelle nostre intenzioni, davamo a questo tipo di impegno (= il fine non giustifica i mezzi); neppure bastano a salvarci, quei correttivi che alcuni di noi hanno cercato di inserire in tale tipo di insegnamento, e neppure gli aspetti positivi che pure in tale tipo di insegnamento si possono trovare (per es.: l'alfabetizzazione).
Senza dire poi del miscuglio che abbiamo fatto - utilizzando questo mezzo inumano - per dare la cosiddetta catechesi; miscuglio che (nonostante le nostre buone intenzioni) fa sì che sia snaturato lo stesso annuncio esplicito del Cristo che questa gente ha diritto di attendersi da noi.
2) un altro esempio di queste conseguenze negative:
il modo in cui questa struttura (e la mentalità da essa implicata) ci ha avviato ad usare dei mezzi più immediatamente materiali, come: costruzioni, macchine, motori, cinema, medicine, soldi, ecc.
Personalmente ho l'impressione che il modo in cui abbiamo usato e stiamo usando questi mezzi è fatto con poca sensibilità alla situazione sociale, economica, culturale della gente in mezzo alla quale viviamo.
Dobbiamo tener presente la nostra quasi assoluta incompetenza sul piano etnologico, sociologico ed economico (che nessuno può negare) e l'impossibilità concreta in cui ci siamo trovati finora di stabilire rapporti con centri, od organizzazioni, o persone competenti, per averne almeno sufficienti informazioni, suggerimenti, orientamenti.
Questo (insieme ad altro) comporta il facilissimo pericolo (segnalato da tutti i competenti) di innescare nel corso dell'evoluzione di questa società africana, dei processi le cui gravi conseguenze negative - da noi forse difficilmente calcolabili e prevedibili - porteranno dei mali che non sono certo compensati dal bene immediato che noi intendiamo arrecare.
E così, invece di porre dei germi di una autentica liberazione (come vorremmo e dovremmo), noi forse stiamo ponendo dei germi di ulteriori e forse più gravi schiavitù.
Ma più immediatamente per noi, in quanto missionari, penso debba preoccupare il fatto che, con il modo in cui usiamo questi mezzi, forse stiamo imponendoci in modo troppo violento (almeno psicologicamente) alla gente d'Africa; stiamo impostando dei modelli di attività missionaria e di vita di Chiesa, che non mi sembrano adeguati alle possibilità reali di questa gente, rendendo così molto difficile (... impossibile?) di scoprire in tale opera evangelizzatrice e in tale vita di Chiesa, il vero volto del Cristo, la sostanza del Vangelo.
Senza dire poi che mi è molto difficile vedere in questo modo di usare i mezzi, una adeguata verifica, da parte nostra, sul piano della povertà evangelica.
Il fatto di essere e di voler essere 'missionari' e di voler fare i missionari, che sta a monte di tutta la nostra vita attuale, non è sufficiente per dare come scontato che tutto quello che facciamo e il modo in cui lo facciamo, sia evangelico, ecclesiale, missionario.
3) Senza portare altri esempi su questo punto delle conseguenze negative che comporta la nostra attuale struttura di Chiesa qui in Guinea, vorrei tentare di riassumerle un po' tutte così:
ho l'impressione che il nostro attuale modo di comportarci ed agire, divenga più una imposizione dall'esterno (anche se si tratta solo di un'imposizione psicologica) di un nostro progetto e piano di 'liberazione', che non una proposta che porti questa gente a maturare dal di dentro e a scoprire da sé la propria 'liberazione'.
4) Il nostro compito - come Chiesa e come missionari - è fondamentalmente quello di indicare la 'meta' verso la quale deve incamminarsi l'umanità; ma nello stesso tempo, il nostro compito è anche quello di mostrare il 'cammino'.
E questo non lo si può fare semplicemente proponendo una dottrina; esige un modo concreto di vivere, almeno come tentativo, come tensione.
Senza questo 'mostrare il cammino', viene meno anche l'indicazione della 'meta'.
Ora, nel mio modo di sentire, la nostra presenza qui, per le deficienze sopra accennate, non sembra un mostrare un cammino autentico di Chiesa, ma piuttosto un mostrare un cammino che - non essendo adeguato né alla sostanza di ciò che è una vita da Chiesa, né alla situazione umana di questa gente - può diventare un cammino sbagliato."
Giulio Barlassina - 1974 |
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Le lettere del dopo |
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Da una lettera |
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ad un membro |
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della D.[irezione] G.[enerale |
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del PIME - Pontificio Istituto |
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Missioni Estere di Milano] |
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Il tipo di vita che sto conducendo, che è quello di un lavoratore dipendente (fattorino e aiuto magazziniere), che vive solo, in un monolocale alla periferia di Milano, per essere economicamente indipendente da qualsiasi istituzione ecclesiastica.
Ripeto che questa indipendenza economica è uno dei punti qualificanti della mia prassi e che quindi anche per il futuro - qualsiasi cosa possa capitarmi - l'Istituto non avrà alcun dovere nei miei confronti.
La scelta di lavorare per mantenermi è conseguente alla scelta di mettermi in una situazione esistenziale che per me (e non necessariamente per gli altri!) fosse più consona alla situazione esistenziale della stragrande maggioranza degli uomini con i quali sto vivendo nel momento storico attuale; consonanza che risultava e risulta a me personalmente, data la mia storia e la mia formazione personale, molto difficoltosa (per non dire impossibile) continuando a vivere in tutti gli aspetti che la struttura ecclesiastica esige oggi dai sacerdoti e missionari (nota come abbia sottolineato 'a me personalmente', in modo che sia il più chiaro possibile che io non ritengo che tale consonanza debba risultare difficoltosa per gli altri necessariamente come lo risulta per me).
Tale scelta - che nel breve arco di vita che ancora mi resta mi sembra di dover ritenere praticamente definitiva - sono cosciente di averla fatta in seguito all'aver avvertito un'esigenza di spogliamento da parte delle strutture attuali della Chiesa (e, quindi, prima di tutti, da parte mia, che di quelle strutture mi sento parte vivente), perché la missione e il ministero presbiterale e, di conseguenza, la vita delle comunità cristiane, fosse il meno possibile difforme da quelle che a me risultano essere le esigenze evangeliche e dell'umanità con la quale stiamo vivendo.
Direi - tentando di spiegarmi meglio - che il mio caso è assimilabile a quello di un missionario che avverte l'esigenza per sé (e non necessariamente per gli altri!) di una maggiore sottolineatura alla dimensione contemplativa da dare alla sua vita come membro di un Istituto missionario, della Chiesa e di tutta l'umanità e che, per rispondere a questa esigenza, ridimensioni la sua prassi cercando di mettersi in una situazione esistenziale che risponda più adeguatamente a questa sua esigenza e, quindi, abbandoni certi aspetti della sua attività che sente di impedimento a tale esigenza.
Per questo aspetto molto soggettivo del modo di avvertire tale esigenza, non ho mai preteso, né mai pretenderò di identificare le finalità dell'Istituto con le mie scelte pratiche, come invece mi accusi tu di fare nel tuo scritto (non riesco a capire in base a quale mia affermazione).
Semmai ho sempre cercato e cerco di vedere se e come le mie scelte pratiche possano essere consone con le finalità che l'Istituto si propone (questo è il senso da dare alle mie espressioni in merito a questo argomento).
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Bussero, 11 aprile 1977" |
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Una lettera di Giulio |
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a Rita Gentile |
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amica di Siracusa |
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per tre anni volontaria |
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in Costa D'Avorio |
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"Milano, 7 maggio 1986
Carissima Rita
Ho veramente gustato la lettura della tua lettera.
Mi hai fatto risentire (più che ricordare) l'atmosfera in cui mi sono ritrovato quando intrapresi la mia pur breve esperienza africana: la sensazione - al fondo dolorosa - dell'enorme distanza tra le culture, con il conseguente 'muro' che tale distanza alza nella comunicazione tra persone; il senso di incapacità, di lentezza nel ricercare e soprattutto trovare gli spazi entro cui muoversi…; e, in particolare, il timore di 'fare violenza' qualsiasi cosa si faccia.
Penso che, col passare del tempo e con la prolungata dimestichezza con l'ambiente, riuscirai a trovare gli spazi entro cui muoverti e, da come ti conosco, penso che riuscirai anche a stabilire degli ottimi rapporti con la gente, anche se, - a mio parere - è ben difficile giungere all'amicizia (sempre a motivo della diversità di cultura).
Ti auguro anche che resti sempre vivo in te il 'timore' di fare violenza: la violenza culturale, secondo me, è sempre una delle peggiori violenze, perché di fronte ad essa la gente è disarmata e non può difendersi.
Questo 'timore' però non deve bloccarti; piuttosto dovrebbe diventare 'l'anima' del tuo comportamento con gli altri.
Coraggio, Rita.
Sei ancora ai primi giorni ed è naturale che tutto ti risulti un po' difficile e scabroso.
Ma il tempo e l'esperienza e soprattutto il contatto sempre più profondo con le persone faranno venire anche a te il 'mal d'Africa'.
Ti pensiamo e parliamo di te frequentemente.
Sentici uniti a te e continua a comunicarci la tua esperienza anche attraverso lo scritto.
Un salutone caldo Giulio" |
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Due lettere di Giulio |
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a Mario Garofalo |
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studente di teologia |
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in Bangladesh |
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"Carissimo Mario
La tua ultima lettera attende una risposta da un po' di tempo.
La mia non vuole essere una risposta diretta alle notizie che mi dai di te, perché non mi sembra giusto esprimere sempre il mio parere sui fatti tuoi, perché essi sono vissuti da TE e in un ambiente e atmosfera che sono tanto lontani da quelli in cui sto vivendo io.
Tali notizie però sono sempre tanto interessanti e stimolanti, perché mi tengono in unione con il vivere (e un vivere tanto intenso, anche se questo forse non risulta a te) di una persona, di un amico.
Forse anche tu non attendi da noi sempre una risposta diretta alle tue lettere; attendi piuttosto un'espressione di comunione, anche di sole due righe...
La mia vita trascorre sempre nella quotidianità, che tu già conosci: casa, lavoro; ma il tutto riempito dalle persone con cui ho rapporti di amicizia.
Sono questi rapporti che caricano di senso la mia vita, almeno immediatamente e per me, anche se - meno immediatamente e in un modo che può sfuggire alla mia coscienza e che accolgo solo per fede - il senso pieno viene e verrà dato da 'altro'.
È quanto, mi sembra, appare anche dalla storia presentataci dalla Genesi, che sto rileggendo in questi giorni con tanto gusto, proprio perché mi richiama in modo tanto vivo questa realtà della mia vita: da Adamo a tutti i Patriarchi, è proprio la quotidianità (che a noi può sembrare banale) che domina la storia ed è proprio in questa quotidianità che altri scoprono, nella fede, lo svolgersi del disegno dell'Altro.
Purtroppo qui in Italia stiamo vivendo un periodo in cui non si è per nulla stimolati a sentire e a partecipare alla coralità del nostro vivere sociale; la crisi fa ritirare tutto e tutti come tante lumachine.
Anche i sindacati ormai si stanno arrendendo completamente alle esigenze della classe dominante, facendo così pagare tutto a chi lavora e, peggio ancora, a chi non ha reddito.
È vero che paragonata alla situazione della gente con la quale stai vivendo tu, la nostra si può dire una situazione di grande ricchezza di fronte ad un'estrema povertà; ciò non toglie però la sofferenza per l'ingiustizia che chi non ha potere deve subire.
Per non parlare poi del riflesso che, secondo me, anche la nostra situazione di ingiustizia ha e avrà sul piano mondiale, contribuendo ad aumentare il volume di ingiustizia che opprime l'umanità.
Avrai ricevuto il 'CHI?' che portava la relazione sull'incontro a Fontanella, simile a quello a cui hai partecipato anche tu.
Al di là di quanto in essi si dice, questi incontri per me - e sono certo anche per gli altri - sono sempre fonte di gioia e mi caricano più che un corso di Esercizi spirituali di una volta...
I miei stanno tutti bene.
Elisa ti avrà parlato di lei e di noi e dei... Siciliani.
Stammi bene.
BUON ANNO, per quel che resta ancora dell'84...
Ti ricordo sempre e spesso parlo di te con l'Elisa.
Ciao Tuo Giulio" |
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"Bussero, 14 aprile 1984
Carissimo Mario
Ti confesso che stavolta mi è duro mettermi a scriverti; è per questo che nonostante le insistenze dell'Elisa, ho tardato tanto a rispondere alla tua ultima lettera, che ho letto e riletto con una particolare partecipazione, quale era richiesta dai tanti problemi, vivi e reali, che in essa hai descritto tanto bene.
Mi è duro, proprio per il tipo di problemi che ti assillano, di fronte ai quali sento tutta la mia impotenza, perché, per l'esperienza che io stesso ho fatto di fronte a problemi analoghi che ho dovuto affrontare e risolvere per me, sono convinto che qui l'apporto esterno serve ben poco, anzi c'è il rischio che tale apporto possa recare maggiore confusione e incertezza.
Supplisce il fatto che, quando c'è un'amicizia profonda, tutto viene capito e ridimensionato, sia per chi scrive che per chi legge...
Ecco perché nonostante tutto, cerco di rispondere ai tuoi problemi, pur limitandomi ad esprimerti alcuni elementi di analisi, che sono già impliciti nell'analisi che tu tanto lucidamente stai facendo della tua situazione.
Penso che l'elemento determinante, più che altri, sia il fatto, che tu stesso hai constatato, che l'aggancio alle Istituzioni esistenti resta ancora l'unica possibilità che permetta una presenza continuata in paesi come il Bangladesh.
Solo l'indipendenza economica, realizzata con un proprio lavoro, ti permetterebbe l'indipendenza dalle Istituzioni; ma in Bangladesh questo è attualmente (e chissà fino a quando) impossibile, non solo per te, ma penso per tutti.
Purtroppo tale aggancio alle Istituzioni sarà sempre molto limitante, soprattutto per uno come te.
Si tratterà quindi di scegliere: o un compromesso (anche se il termine suona male, non significa però che indichi solo e neanche soprattutto 'negatività') con le Istituzioni; oppure rinunciare alla presenza fisica in Bangladesh per inserirti in altro ambiente più conforme alle tue esigenze e aspirazioni.
Certo, nel caso della scelta di un compromesso bisognerà tener presenti e salvare assolutamente quelle esigenze, che tu ben segnali nella tua lettera e che io condivido in pieno.
Per esempio:
- quel tuo modo di sentire la religione come un elemento di divisione, tenendo presenti i grossi incrostamenti portati dalla storia e dalle culture sia in campo cattolico che in campo non cattolico;
- quel tuo sentirti fortemente orientato ad una presenza 'informale' che ti permetta un accostamento più 'umano' agli altri;
- quella 'fame del tuo denaro' che avverti presente in quasi tutta la gente di lì, 'fame' che è ben comprensibile e giustificabile anche, in situazioni come quella del Bangladesh e con un tipo di presenza dell'occidentale quale finora si è verificata.
Si avverte dalla tua lettera che hai una sensazione molto forte di questi condizionamenti ed insieme una visione lucida del possibile blocco che essi ti porterebbero.
Anche questo aspetto soggettivo (penso più che ad altri aspetti) è da tener ben presente in vista di una decisione.
Mi sembra poi molto importante quanto tu dici riguardo ad una scelta 'celibataria'.
Proprio da quanto dici mi risulta che tale scelta non avverrebbe in te soprattutto per 'germinazione del tuo intimo', ma per motivi piuttosto 'istituzionali' (che pure sono validi, come lo sono stati per la grandemaggioranza dei preti).
Per questo penso che in vista di una decisione tu debba ben valutare l'attuale orientamento della comunità cattolica (che durerà certo per tutta la tua vita) circa il celibato, le situazioni ambientali e soprattutto le tue più profonde e umane aspirazioni.
Io sono convinto che un tuo 'essere per gli altri' non dipenderà dal fatto che tu sia celibe o no.
Penso che nella impostazione della nostra vita ciò che deve stare al primo posto sia il nostro essere 'con gli altri'.
È a questo che dobbiamo continuamente rispondere, non alle attese (più o meno condizionate dalle strutture, dalle culture, dalle tradizioni con la 't' minuscola, dalle abitudini ecc.) né delle singole persone, né delle Istituzioni più o meno sacre.
Non possiamo pretendere di cercare - e tanto meno di trovare - la situazione migliore (sul piano umano) per tale risposta, che dipende - come valore - solo dall'orientamento intimo e di base della nostra personalità.
Sono però convinto che dobbiamo, per quanto possibile, evitare situazioni che possono bloccare o condizionare troppo la nostra risposta.
E, al di là (o meglio: al di qua) di queste considerazioni 'spirituali', sono del parere che nessuno di noi si possa permettere di scegliere condizioni di vita che possono, anche a lungo andare, rivelarsi 'anti umane'.
Siamo stati messi al mondo per 'vivere' e vivere in pieno, - per quanto possibile - la nostra vita umana.
Altro elemento importantissimo da tener presente nell'impostare la tua decisione è il fatto che, come dici nella tua lettera, tu non condivida né i metodi né soprattutto i principi su cui è impostata la presenza delle strutture di lì.
Proprio per questo motivo io, a un certo punto della mia vita, non ce l'ho fatta più e mi sono deciso
a ritirarmi.
Non sentirti pressato e quindi non avere troppa fretta, per decidere.
Cerca di tentare le varie vie che ti appaiono possibili per realizzare un'impostazione della tua vita secondo i tuoi ideali (per esempio, non credi che il PIME, dopo l'ultimo capitolo, non disponga di nuove possibilità, meno limitanti di quelle che ha avuto finora?).
L'importante è che sia il 'Mario' a decidere, in tutta la sua libertà.
Sii sicuro della nostra (di Elisa e mia) solidarietà con te, qualsiasi possa essere la tua decisione.
Per questa volta basta, anche se le cose da dirci restano ancora tante.
Stammi bene; ti penso tanto e, come sempre, parliamo spesso di te.
Buona Pasqua!
Ciao! Tuo Giulio" |
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Lettere di Giulio |
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a Nino e Paola |
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due amici di Catania |
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"Carissimi Nino e Paola
La lettera di Paola mi ha portato tanto dell'atmosfera in cui state vivendo la vostra avventura di amore, che è poi il cuore di tutta l'avventura della vita.
Sono contento per voi e vi auguro che tutto - pur
nel naturale
sviluppo - continui così.
Io sto passando un periodo di convalescenza - un mesetto circa - dopo l'intervento chirurgico per ernia inguinale.
Tutto è andato molto bene, non ho sofferto nulla.
Attendo ora di recuperare un po' tutte le energie.
Intanto mi sto godendo questi giorni.
Raramente nella mia vita ho avuto del tempo così prolungato tutto a mia disposizione.
Con l'Elisa in 'pensione' sto passando veramente delle belle giornate.
Nella lettera di Paola, chiedete un nostro parere circa il Battesimo della vostra bambina.
Personalmente - quindi con tutti i limiti che vanno attribuiti ad una mia visione - ritengo molto difficile al giorno d'oggi, dare una risposta chiara al vostro problema.
Tenendo presente il mio attuale modo di pensare circa la Chiesa e - soprattutto - circa la 'fede', io non darei molta importanza al 'gesto sacramentale' in quanto questo compiuto qui (nella nostra comunità attuale) e adesso (cioè nel contesto immediato e più vasto in cui storicamente sta vivendo questa vostra 'comunità').
Io darei molta importanza invece ad un cammino (= continua ricerca esistenziale) di 'fede' di voi due, che avete dato l'essere fisico a questa creatura, e che continuate ad essere gli strumenti più immediati e più importanti per creare attorno ad essa l'atmosfera in cui crescerà, si svilupperà, e in cui liberamente si troverà a fare le sue scelte graduali.
Perciò io penso che sia abbastanza indifferente fare il gesto sacramentale adesso o più tardi.
Penso piuttosto che per voi due (cioè per i riflessi che ciò avrebbe sui vostri rapporti con la comunità in cui dovete vivere) potrebbe non essere molto 'indifferente' porre subito o procrastinare il gesto sacramentale.
Perciò vedete voi, in base anche a criteri di convenienza umana.
Vi attendiamo qui a Milano, in casa nostra ci state in tre.
A risentirci presto.
Saluti e tanti auguri Giulio" |
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"13 giugno 1989
Nino,
nelle ferie dello scorso anno mi sono goduto Verga.
In quelle di quest'anno mi sono goduto - e in misura ben maggiore - te, nel tuo Diario.
Auguro che molti abbiano la stessa fortuna che ho avuto io - insieme ad Elisa - di leggere 'tutto' (e non solo a brani, che pur hanno un proprio valore) questo Diario.
Mi sento avvolgere da un'atmosfera di profondo ottimismo, che mi fa dire: la vita è sempre bella e sempre vale la pena di viverla, perché è piena della positività che tutte le persone in essa incontri.
La vena di leopardiana malinconia che sottende un po' tutto lo scritto, esalta la carica positiva del modo di sentire la vita nella concretezza dei suoi valori e nella sua quotidianità.
Ti invidio lo 'strumento di sensibilità, quell'antenna fine e captante' che la tua storia e la tua indole ti hanno permesso di forgiarti.
E allo stesso modo invidio la tua capacità di espressione spontanea, sempre piena di novità che coinvolge alla semplice lettura.
Grazie Nino per questo regalo che ci hai fatto, che si può contraccambiare solo con la continuità della fruizione di un'amicizia ricca come la tua e quella di Paola.
Giulio" |
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"Milano 15 gennaio 1990
Carissimo Nino
Una lettera come la tua fa toccare con mano l'adeguatezza del tuo rilievo sulla diversità tra la comunicazione telefonica e quella epistolare.
Occorrerebbe però che tutti avessimo la tua capacità di lasciare emergere i pensieri, che pure stanno dentro tutti noi, fino al livello dell'espressione verbale e, soprattutto avessimo la capacità di produrre lo 'sforzo' necessario per esprimerli.
E io, forse anche per giustificare la mia pigrizia congenita, avverto di non avere tale capacità, almeno nella misura in cui l'avete tu ed Elisa.
E questo blocca il desiderio, pur tanto vivo, di 'comunicare' con amici tanto ricchi quali siete voi e mi costringe a perdere una ricchezza, che avverto tanto grande.
Ci hai rimesso in contatto con te e con il tuo mondo, che abbiamo avuto modo di 'godere' già più di una volta e il cui ricordo (tanto frequente nei nostri discorsi) suscita in noi tanta nostalgia.
Grazie!
La mia vita continua in quella che all'apparenza può risultare una monotonia, ma che al fondo avverto essere il frutto di una scelta, maturata nel travaglio di una ricerca per essere sempre meno 'non autentico' e che perciò mi dà un certo senso di gratificazione.
Ma è soprattutto la presenza e la comunicazione con Elisa che dà una pienezza di senso al mio vivere tra e con gli altri, perché dà ad esso la dimensione 'personale', strappandolo dal rischio della semplice istintività o passività.
E così
posso dire che
'sono contento'. Gli aspetti negativi, che pure ci sono e si fanno sentire (specialmente nell'ambiente di lavoro), passano in secondo piano a fare da sfondo e contrasto, anch'esso non inutile, al quadro della mia esistenza.
I miei congiunti (sorella, fratelli, cognate, nipote) stanno bene; il tempo e il rapporto fraterno hanno fatto superare bene lo shock per la morte di Lino.
Ho portato loro i tuoi saluti, che ricambiano.
A te e a Paola vorrei far sentire forte il mio: 'coraggio!', perché so quanto più complesso e faticoso del mio sia il 'combattimento' che dovete affrontare voi.
Alle bambine un bacione sonoro.
Ai genitori e parenti tutti, un saluto e l'augurio di Buon Anno.
Con affetto
Giulio" |
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Il ricordo |
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"Oggi sono otto mesi |
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che Giulio è tornato a Casa" |
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Elisa Moriggi |
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"Inizio a scrivere di Giulio con gioia ma anche con timore perché mi sento inadeguata e incapace di scrivere di lui…
Lo avete conosciuto: parlava poco, di sé quasi mai, e quando gli facevo una domanda rispondeva in sintesi.
Ricordo che all'inizio del nostro incontro, un giorno gli ho chiesto quale fosse il punto attorno al quale ruotava tutto il resto.
Mi ha risposto: 'Io mi fido di un Altro'.
Non voleva mai spiegare niente.
L'ho conosciuto nella fase del 'silenzio': 'Ho già parlato troppo, adesso basta'.
Quando aveva preso la decisione di lasciare tutto, contemporaneamente aveva deciso di fare silenzio e ha mantenuto questo impegno, sempre, con tutti.
Anche con me.
Non ricordo di aver ricevuto 'lezioni', correzioni sul mio modo di fare o di esprimermi.
Quando qualcosa non andava bene mi arrivava in silenzio, aspettava che io capissi.
Ascoltava molto, si sentiva che seguiva tutto quello che si diceva, non dava mai giudizi su nessuno.
Se si chiedeva il suo parere era sintetico, essenziale.
Aveva idee chiare, ma se non era direttamente interpellato, ascoltava. |
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Come e quando ho conosciuto Giulio |
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Quando ho iniziato a frequentare il PIME, Giulio era partito per la Guinea Bissau; non l'ho mai visto prima della sua partenza.
Avevo sentito molto parlare di lui dai seminaristi, dal gruppo che allora frequentava il secondo anno di teologia.
Ricordo bene un particolare.
Maggio 1974: ero a Macapà, quel giorno mi trovavo in una Parrocchia, insieme ad Angelo Da Maren, Luigi Carlini e Sandro Gallazzi; arriva il Giovanni Gadda e dice: 'Sapete l'ultima? Giulio Barlassina lascia la Guinea e il PIME…'
In maggio sono tornata da Macapà e lui pure è tornato, dalla Guinea.
Non ho più saputo nulla di lui per diverso tempo, fin quando Franco Lacchini mi disse che potevo mandare anche a Giulio Barlassina il 'CHI?'.
L'incontro, quello vero è stato a Bussero dopo cinque anni, esattamente il 17 febbraio 1979.
Quel giorno ho trovato una persona che tutti vorrebbero incontrare, come amico, maestro, compagno nella vita.
Abbiamo camminato insieme per trentadue anni aiutandoci, ascoltandoci, imparando a convivere con i nostri caratteri - sotto certi aspetti - opposti.
Avevamo gli stessi principi e indirizzi, le stesse scelte - fatte le debite proporzioni: io che gli stavo appresso, e lui che faceva da guida.
Lasciavo che lui prendesse per se stesso le decisioni che riteneva più giuste, io mi adeguavo.
È sempre stato molto sereno, non ha mai avuto ripensamenti in merito alla sua decisione.
Aveva passato anni a maturare questa scelta.
Dai documenti risulta chiaro il motivo che l'aveva portato a fare questo passo.
L'unica sofferenza, vera sofferenza, era nel rapporto dei suoi familiari con la sua scelta fatta.
Non ne parlava, ma sentivo la sua sofferenza nel saperli in paese e che venivano coinvolti nel giudizio, senza conoscere i motivi per i quali aveva lasciato il sacerdozio...
È sempre stato molto legato ai suoi: fratelli, sorella, cognate, nipote.
Si sentiva voluto bene da loro, ma non poteva evitare loro il disagio per la scelta fatta.
Nel 1984 ho trovato un appartamento a Milano abbastanza comodo per arrivare al lavoro, era impiegato di magazzino in una ditta di S. Donato; è rimasto sino all'età di 62 anni.
Dopo 18 anni di lavoro aziendale è andato in pensione.
Il 1° ottobre 1998 ci siamo sposati a Milano nella chiesetta di Nosedo, della Parrocchia dove abitavamo.
Questa decisione è stata presa da Giulio e da me subito condivisa, tutto si è svolto nel riserbo e nel 'silenzio' come Giulio desiderava.
La storia ci stava preparando affinché io potessi aiutare e assistere Giulio durante tutto il periodo della sua malattia.
L'anno successivo - il 1999 - ha fatto la prima risonanza magnetica.
Non si riusciva a trovare la causa del suo camminare rallentato, non aveva alcun disturbo ma camminava sempre più lentamente.
Dalla risonanza risultò che aveva avuto dei piccoli infarti nella zona del cervello che presiede al movimento delle gambe.
La causa era da imputare alla pressione che aveva degli sbalzi, questi picchi hanno procurato le ischemie.
Non sapevamo della sua ipertensione, si trattava di episodi improvvisi.
Questo è stato l'inizio della sua invalidità.
Per sei anni il declino è stato lento, abbiamo vissuto una vita normale.
Abbiamo fatto vacanze in Sicilia dove io già conoscevo tanti giovani incontrati nei campi di lavoro al PIME di Mompilieri.
Per loro conoscere Giulio è stato molto bello.
Per noi e per loro è stato importante.
Questi amici hanno lasciato un'impronta significativa nella nostra vita, amicizie che ci hanno accompagnato negli anni e durano tutt'ora.
Dopo sei anni, alla fine del 2005 Giulio non riesce più a camminare, non sta più neanche in piedi se non sorretto.
Inizia la sua vita da seduto: poltrona, carrozzina.
La casa è senza ascensore ed è necessario un apparecchio montascale.
Non me lo danno se non c'è una persona, un uomo che si prende la responsabilità.
Ricorriamo all'amico Franco Lacchini che a sua volta insegna a diverse persone che, quando serve il loro aiuto, a turno si rendono disponibili a far scendere e risalire le scale al Giulio.
Da questo periodo inizia un rapporto quotidiano con persone che vengono ad aiutarmi.
Abbiamo avuto la fortuna di stabilire dei rapporti molto belli e trovare sempre le persone giuste al momento giusto secondo le varie esigenze.
Dal vicino di casa - Giovanni - di qualche anno più anziano di Giulio, che veniva a orari fissi tre, quattro volte al giorno per aiutarmi ad alzare e spostare Giulio.
Poi man mano che il tempo passava e i disturbi aumentavano, la squadra si allargava.
Erano tutti molto affezionati a Giulio, si sentiva che lo aiutavano con amore e lui sapeva ripagarli col sorriso e tanta riconoscenza.
Per lui andava sempre tutto bene.
Per diversi anni, fino al giorno del suo ricovero, ha frequentato tre volte la settimana, il Centro Diurno della Casa di Riposo vicino a casa nostra.
Lì passava la giornata, gli facevano della terapia, stava in compagnia di persone… non andava sempre volentieri, ma almeno usciva un po' da casa.
Io lo raggiungevo a pranzo per farci compagnia e aiutarlo. |
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Ombre e luci |
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Giulio ha vissuto un periodo con la difficoltà della confusione, ricorrente.
Aveva frequenti episodi di ricordi del passato.
Non sempre riuscivo a calmare la sua ansia e soddisfare le sue richieste.
Quando il problema riguardava i ricordi di Bussero e non riuscivo a convincerlo, lo facevo parlare al telefono con la sorella; quando riguardava qualche persona del PIME che doveva contattare per i suoi libri, per le cose che doveva ritirare, ricorrevo a Franco Lacchini, sempre disponibile ad ogni ora, che riusciva sempre a trovare il modo di calmarlo.
Quando si rendeva conto della sua confusione ne soffriva e io con lui.
Di solito questi episodi si ripetevano la sera o la notte; passavo il tempo vicino a lui parlando perché si mettesse tranquillo.
Nella normalità ritornava sereno e in pace.
Mi ha molto colpito quando mi disse: 'Gli altri non vogliono che io mi esprima così come sono. Ma io sono stanco di fare lo schiavetto, di fare sempre quello che vogliono gli altri'.
L'ho lasciato dire senza chiedere spiegazioni.
Il giorno dopo ho ricordato a lui quello che mi aveva detto e ho chiesto a che periodo della sua vita si riferisse.
Mi ha risposto: 'Il periodo prima del nostro incontro'.
Sulla stessa lunghezza d'onda, nello stesso periodo, in un momento di confusione mi ha detto che si sentiva preso a schiaffi da tutti, che aveva sbagliato a fare il prete: 'Chissà quanto male ho fatto, quanto ho sbagliato con le persone, ho sbagliato tutto nella mia vita'.
Gli ho ricordato quanti e quanto gli hanno voluto bene, tutti quelli che lo avevano conosciuto.
Ho anche domandato: 'Hai sbagliato anche a volermi bene e a stare con me?'.
'No. Questa è l'unica cosa giusta che ho fatto'.
Una sera avevo insistito perché rimanesse in poltrona con le gambe sollevate perché aveva i piedi gonfi; avevo insistito un po' senza ottenere risultati, non mi ero arrabbiata ma ero un po' preoccupata… quando l'ho messo a letto mi disse: 'Sono stato motivo di disarmonia fra me e te questa sera'.
Le contraddizioni non le sopportava, sentiva e capiva
anche quello che non dicevo. Spesso entrava e usciva dal tempo reale, il passato e il presente diventava un tutt'uno; gli ho fatto notare che era come un Angelo, fuori dal tempo.
A una persona che gli chiedeva come stai, risponde: 'Sono disperso'.
Diventava man mano sempre più sensibile, viveva nella normalità, a un livello più profondo.
Nel 2009 ha iniziato la riflessologia, una terapia che attraverso i massaggi ai piedi riattiva energia nei vari organi.
Una volta la settimana veniva Adriano, questa terapia risultava man mano molto efficace; nel tempo diminuivano gli episodi di confusione e quando avvenivano erano più leggeri, riuscivo a calmarlo e riportarlo alla realtà più facilmente.
Adriano è stato accolto da subito come un amico prezioso, c'è stata subito da parte di Giulio una grande apertura, è stato uno di pochissimi ai quali abbiamo raccontato di lui e delle scelte fatte.
Mi ricordo un episodio, fra i tanti: un giorno mentre massaggiava un punto del piede, Adriano chiede: 'Giulio ti ho fatto male?'.
Giulio risponde prontamente: 'Se non pensi male di me, non mi fai mai male'.
Un altro episodio significativo di come sentiva la realtà dentro di sé.
È sera tardi, vigilia del mio compleanno.
Giulio ha forti dolori addominali, sono in difficoltà, chiamo la guardia medica, temevo il ricovero… siamo all'inizio di agosto.
Telefono a Enrico, un mio amico medico, che abita fuori Milano per un consiglio.
Già averlo trovato è un mezzo miracolo.
Mi dice cosa devo fare, se non passano i dolori, è necessario il ricovero.
Ogni mezz'ora mi telefona per seguire la situazione.
Man mano i dolori diminuiscono e passa la notte senza più problemi.
La mattina Enrico viene a vederlo… tutto si è risolto.
A questo punto dico a Giulio ridendo: 'Questo sarebbe il tuo regalo per il mio compleanno?'
Immediata la risposta: 'Mi ha dato così a te il Signore'.
Questo era Giulio, sempre imprevedibile, sempre un po' più in alto.
Una sera era a letto da un po', mi chiama: 'Elisa ho voglia di sentirti, metti le tue mani sopra la mia testa'.
Così ho fatto, dopo un po' mi dice: 'Che consolazione avere vicino una persona che fa tutto quello che mi serve...'
Quella volta mi ha molto commossa, mi è passata tutta la stanchezza della giornata e avrei voluto fare cambio con lui, se avessi potuto.
Nonostante diventasse sempre più bloccato nei movimenti era preoccupato per me, s'accorgeva quando ero molto stanca o in pensiero per le varie situazioni che si presentavano; una sera mi dice: 'Sei triste? Qualcosa ti preoccupa? Avresti bisogno di qualcuno che ti fosse vicino e ti sostenesse, su cui contare. Io invece sono così e tu sei sola.'
Nella sua grande sensibilità soffriva più per me che per se stesso.
Una sera mi dice: 'Dammi un po' di consolazione.'
Io come facevo di frequente lo abbraccio e chiedo: 'Cosa posso fare per consolarti?'
E lui: 'Così va bene'.
Mentre poi lo preparavo per la notte con un po' di fatica a causa della sua immobilità, mi dice: 'Tu ti meriti il Paradiso!'
E a me è venuto da dirgli: 'Non so se il Paradiso, adesso mi merito Giulio, ed è un tesoro.'
Mi sono ricordata del suo affermare: 'Mi fido di un Altro'.
Un giorno considerando che non era più in grado di alzare le braccia e di toccarsi il viso, difficoltà a mangiare da solo alcune cose, mi è venuto spontaneo dirgli: 'Non solo spiritualmente, ma per ogni cosa ti fidi di un altro, ti fidi per tutto di me...'
Mi ha risposto col sorriso: 'È vero!'
Questa consapevolezza era sempre presente e gli faceva accettare qualsiasi difficoltà con tanta serenità e senza mai cercare problemi.
Andava sempre bene tutto quello che io o altri facevano per lui, abbandonato, silenzioso, docile, al suo posto.
Anche quando non riusciva a fare quello che chiedevo - io lo stimolavo perché reagisse - si dispiaceva di non riuscire, ma mai si ribellava o mi rimproverava.
Una volta che non riusciva ad aprire la mano perché potessi lavargliela, indicandomi la testa mi guarda dicendomi: 'Non faccio in tempo a dare l'ordine.'
Qualche volta mi diceva che era stanco, gli mancavano le forze pur stando in poltrona o sdraiato.
Un giorno che mi diceva la sua stanchezza, gli ho chiesto se desiderasse andarsene in Paradiso.
Mi ha detto: 'Sì, ma io penso a te.'
Gli ho risposto: 'Non devi, io mi arrangio e poi vengo presto, anch'io sono vecchia; stiamo sereni, in pace, non sappiamo cosa sia meglio per noi, lasciamo che avvenga quel che è giusto.'
Mi ha risposto: 'Così è giusto.'
Da sempre l'argomento morte è motivo delle nostre conversazioni quando si presentano le occasioni, non solo adesso che è ammalato.
Dopo la Comunione che ci veniva portata la domenica, il giorno di Capodanno domando a Giulio: 'Cosa hai chiesto al Signore per il nuovo anno?'
'Mi faccia essere umile, aperto alla sua Grazia.' |
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L'ultima tappa |
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2 marzo 2011.
Giulio è al Centro Diurno.
Come al solito lo raggiungo per il pranzo.
Lo trovo che non sta bene, le assistenti mi confermano che è tutta la mattina che non respira bene.
Lo porto a casa e lo metto a letto.
Quando è a posto mi dice con un viso sereno: 'Se potessi ti abbraccerei forte per dirti quanto ti voglio bene.'
Rispondo: 'Anch'io te ne voglio tanto e vorrei portarti via la tua sofferenza.'
Giulio: 'Già fai tutto quello che mi serve, questo è un momento difficile. Sono tanto contento di averti incontrata.'
Poi si è assopito.
Non sapevo che questo sarebbe stato il suo saluto.
La sera, quando l'ho alzato, faceva tanta fatica a respirare.
Ho telefonato al medico alle ore 20 e gli ho fatto sentire come respirava.
Mi ha detto: 'Subito in ospedale!'
Ricoverato con l'ossigeno al pronto soccorso dell'Ospedale Maggiore, il più vicino a casa, è iniziato l'ultimo periodo.
Al pronto soccorso, nell'atmosfera di emergenza e insicurezza, dopo un po' che aspettavamo di capire cosa avrebbero deciso dopo visite e radiografie, chiedo a Giulio: 'Di cosa senti bisogno?'
Mi risponde: 'Un po' di familiarità.'
Era proprio quello che mancava lì, il sentirsi 'persona'.
Sono venuti a dirmi che era molto grave.
L'ho lasciato verso mezzanotte.
Il mattino dopo era in reparto - medicina intensiva.
Mi hanno avvertito della gravità: broncopolmonite e pleurite, senza febbre.
L'ho trovato - e sarebbe sempre stato - seduto sul letto, con cuscini che lo tenevano sollevato, con ossigeno.
'Giulio, sei triste?'
'No, perché dovrei?'
Gli amici del CHI? hanno seguito il decorso di questo periodo perché Franco Lacchini inviava mail con le notizie.
Come sono state consolanti per me e per Giulio le espressioni di affetto e le preghiere degli amici 'pimini' che arrivavano dal mondo in risposta alle notizie che Franco mandava via mail.
Per Giulio sono sempre stati gli amici, le persone che più ha amato e che ricordava con grande affetto.
Era sempre stata una gioia rivederli quando venivano a trovarlo.
Io restavo con lui tutto il tempo e negli orari concessi.
I primi giorni potevo dargli da mangiare cose che poteva deglutire, poi hanno messo un sondino nel naso perché tutto quello che ingeriva poteva finire nei bronchi e peggiorare la situazione.
È sempre rimasto grave.
Stava molto tempo con gli occhi chiusi anche se capiva e rispondeva.
Il 5 marzo è venuto Dell'Oro a trovarlo e con aria scanzonata chiedeva a Giulio: 'Hai tutte le carte in regola per andare in Paradiso.'
'Non credo.'
'Allora non ti fanno entrare, non ti danno il permesso di soggiorno, ti mettono in un centro di accoglienza… Aspetta, non ti conviene andare adesso.'
Giulio ride.
È sempre più grave.
In un momento di sollievo gli dico: 'Non pensare a me, lasciati andare, non avere paura, sei stanco, non fare resistenza, abbandonati. Io ti accompagno qualunque siano le tue scelte, sia che vuoi rimanere, sia che vuoi andare.'
Mi risponde: 'Ci devo pensare.'
La domenica 23 ha avuto una giornata bellissima.
Era sveglio, attento, presente.
Il pomeriggio erano presenti Franco Lacchini e la moglie Grazia, anche loro hanno goduto con me questa situazione.
Abbiamo preso accordi con lui per la funzione dell'Unzione degli infermi, verificando la possibilità che Giovanni Gadda potesse venire il giorno seguente… la sera non sarei più venuta via dall'ospedale per non perdere questa situazione di miglioramento.
Arrivata sulla porta mi sono voltata, lui mi stava osservando: ricordo ancora il suo sguardo.
Il giorno dopo non era più così, è stato sempre con gli occhi chiusi e assente.
È venuta per l'ennesima volta la nipote Simonetta, veniva a vederlo quasi ogni giorno, così come sono frequentemente venute le cognate e anche la sorella Carla, pur con tanta difficoltà a camminare.
Sono arrivati Giovanni e Franco per l'Unzione degli infermi e la Comunione; ma lui non ha dato segno di essere presente, non ho più potuto comunicare con lui.
Sono tornata a casa la sera, senza mai lasciarlo con il pensiero.
La mattina mi hanno telefonato di andare che stava male, ma quando sono arrivata era già partito per tornare alla casa del Padre.
Grande la pena per non essergli stata vicina al momento della sua partenza, anche se non mi sono mai allontanata da lui spiritualmente.
Il giorno del suo funerale (senza messa perché era venerdì di quaresima, liturgico) è stato un ritrovarsi di amici attorno a Giulio.
Era come se li avesse convocati, dopo tanti anni, e avesse dato loro l'opportunità di rivedersi.
È stata la caratteristica di quel giorno, la meraviglia e la gioia di rivedersi con Giulio.
Da qui il bisogno di rincontrasi con più tempo per 'raccontarsi'.
Sono venuti in tanti, parenti, amici, alcuni del Centro diurno.
La Chiesa era gremita di gente (con la meraviglia del Prevosto che non lo conosceva perché da pochi anni in parrocchia: dalle persone, dalle parole di Giovanni Gadda non riusciva a capire bene chi fosse questo Giulio…)
Giulio mi manca sempre perché non lo posso vedere, sentire, condividere e godere della ricchezza che mi comunicava, una presenza sempre positiva.
Ma è davvero sempre con me, lo sento, e non è una fantasia.
Adesso è nella 'gioia', nella luce e nella pace; e mi comunica tutto questo.
Quante volte l'ho sperimentato.
Nel dubbio di cosa decidere, di come comportarmi, di cosa scegliere nelle varie situazioni mi ritrovo con delle intuizioni che poi si rivelano giuste e opportune.
Sono sola, anche se ho vicino molte persone amiche, la vita di tutti i giorni è solo mia.
Giulio, vi assicuro, è sempre con me, basta che mi sintonizzi sulla lunghezza d'onda e la comunicazione è immediata.
È diventato uno stato d'animo. Tutto quello che ho scritto di Giulio con me è una parte della nostra storia.
Nel suo 'silenzio' era molto eloquente, bastava vederlo vivere nella quotidianità per imparare.
Mi ritengo privilegiata di aver vissuto una parte della mia vita con lui, e adesso di continuare, in modo diverso ma sempre reale, a ricevere gioia, luce e pace.
Elisa" |
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Quella ad Esino del '65 fu purtroppo l'ultima, bellissima estate con "i miei ragazzi", in autunno misi in moto la Lambretta e me ne andai - a lasciarmi guidare da strade di montagna, a farmi i miei 24 mesi di naja, e poi e poi e poi...
Mai a pensare che, nemmeno dieci anni dopo, anche tu, Giulio (!?): ben fatto, amico mio! |
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"Ciao, Giulio!" |
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Luciano Russo |
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Vai, Giulio: c'abbiamo creduto con tutto noi stessi!
Venti caldi di Concilio, profumo di pulizie: tarde, dovute, mai fatte.
Via del ritorno a un semaidio fattosi carne proprio a darcene il senso.
Speranze al solito abortite da carne che manc'a dirlo si rifece dio.
"Padre Spirituale" un'etichetta di cui non m'è fregato più di tanto.
Checché t'avessero chiamato quegli zombi, tu l'alter ego sconosciuto.
L'"io diversamente amico" da scoprire - se fortunati - solo nell'altro.
Così specularmente opposto che non ci sarei mai diventato.
C'annusavamo come due animali, senza umani pregiudizi né paranoie - solo cauti.
Incuriositi dall'odore semi"nostro", gioiosamente sorpresi a vicenda.
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Sai, Giulio: quella era per me la tua futura Guinea.
Esubberante, 'mpazziente, cchiassoso di "romanità" mai scelta goduta - io Etrusco!
Tu paesino amenamente sparso: riservato (silenzioso) [determinato!].
Mina vagante io, tu piccoli passi sicuri cadenzati a portar lontano.
Con certificata insofferenza t'ho lasciato nelle tue sofferte certezze.
Io mai missionario - né tant'altre cose: eppoi ritrovarti lì, spimato e spretato convinto...
Se a te stava stretta, quella livrea a me non voleva proprio entrare!
Coi miei di angelodemoni c'ho voluto far subito i conti - tu, zitto, oltre.
Di "colpa" ti rinfaccio solo quel vaffanculo liberatorio sempre mancato, mai urlato.
Grazie comunque, dioincuinoncredo, per te, fratello di terra incognita. |
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Dai, Giulio: è di Politica che in fondo parlavamo...
La "parolaccia" che non t'ho mai sentito dire: ammettilo almeno adesso.
non solo a parole predicata!
Qui e adesso o in bilico per l'eternità - io incazzato, tu dura mitezza.
Marina Militare, Sessantotto, sampietrini, arie lacrimogene e all'anarcoautoconfino.
I tuoi fumi allora, ancora e troppo a lungo solo liturgici d'incenso.
Insistere a rimanerci in "quella" Chiesa a farti male più delle mie pietre.
Domandarmi domandarti se alla fin fine ci siamo potuti capire, che importa?
Fatto sta che tu e io ci siamo incontrati, eccome: sopra e sottopelle.
Pregno ciascuno di "verità" da non dover infierire sul dubbio dell'altro. |
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Mai, Giulio: non siamo scesi a compromessi!
A reciproca insaputa dovevamo lottare, insieme e l'uno per l'altro.
Se non proprio la strada, condivisa è pur stata la visione e la coerenza.
Anche se c'è voluta una vita - per me di rabbia, per te di dolore.
Solo t'avessi portato via con me su quella Lambretta modificata fuoristrada...
Per te avrei addirittura tolto il portapacchi cromato, smisurato apposta.
E c'avrei rimesso il sellino, e dietro ancora un'altro: per Francesco.
Ti sapessi davvero "vivo" bell'e morto, te ne direi - sorrideresti e basta.
Beh, mi ti terrò così, col tuo sorriso accennato, buono e rassicurante del Giusto.
Di carne e ossa, sangue e pensiero, parola e azione: ti ricorderò d'Amore!
Luciano |
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