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Fronte del trittico double-face o "Pale" del Santissimo Salvatore, opera di "Gregorio e Donato d'Arezzo", datata 1315 - Museo dell'Opera del Duomo "Bruno Panunzi", Bracciano, Roma.
Al centro il "Redentore in trono" con angeli fra San Giovanni Battista, a sinistra, e San Nicola, a destra, sul lato interno degli sportelli laterali. |
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Le secolari lotte fra |
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"Welfen" e "Wibeling" |
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A partire dal XII sec la politica italiana č segnata dalle metamorfiche lotte tra "Guelfi" e "Ghibellini", la profonda divisione (affatto diversa da quella di oggi!) in due fazioni dominanti e opposte, che tali resteranno fino alla nascita delle "Signorie" nel XIV sec.
All'origine i loro rispettivi nomi riportano alla lotta per la corona imperiale dopo la morte di Enrico V nel 1125:
da una parte i Bavaresi e Sassoni dei "Welfen" - da cui l'italianizzato "Guelfi"
e dall'altra gli Svevi degli Staufer del castello di "Wibeling" (poi Waiblingen) - da cui in Italiano "Ghibellini", un'"invenzione" linguistica per assonanza che nasce a Firenze, ma con rapidissima diffusione in tutta Italia e anche in Europa.
Una volta la Casata Sveva conquistata la corona imperiale (il cui potere Federico I Barbarossa cercherŕ di consolidare nel Regno d'Italia), "Ghibellino" diventa infatti chiunque appoggi l'Impero, mentre "Guelfo" chi invece lo "contrasti", appoggiando quindi, direttamente o indirettamente, il Papato.
Piů ristrettamente all'ambito toscano le denominazioni "Guelfo" e "Ghibellino" riferiscono alle opposte fazioni fiorentine e toscane, come appare negli Annales Florentini in cui giŕ nel 1239 viene usata per la prima volta la parola "Guelfi" o Pars Guelforum Florentina e subito dopo, nel 1242, "Ghibellini".
L'esito della Battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289 fra i Guelfi "Fiorentini" e i Ghibellini "Aretini".
Vi prendono parte tra gli altri figure storiche anche di spicco culturale, quali Cecco Angiolieri nel contingente senese e lo stesso Dante Alighieri tra i "Guelfi", con la vittoria di questi ultimi, a dire il vero pur sempre "casuale", frutto del comportamento "insubordinato" quanto dell'"audace attacco" di Corso Donati, segna in pratica l'inizio della progressiva, crescente "egemonia" di Firenze sul resto della Toscana.
Questo lo scenario "socio-politico" in cui nasce la nostra "opera". |
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Un dopoguerra come sempre di |
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"impoveriti" "profughi" e "sfollati" |
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Insomma, nella pianura dell'etrusca Campaldino, fra i castelli casentinesi di Poppi e Romena, sul lato sinistro dell'Arno, Firenze combatte e vince in quel lontano giorno di San Barnaba.
Vince non solo sulla nemica cittŕ di Arezzo, ma anche contro il "Ghibellinismo", una battaglia decisiva, che rappresenterŕ una delle tappe "fondamentali" per la conquista del predominio in Toscana.
Sul campo i Ghibellini lasceranno quasi duemila morti, contro poche centinaia tra i Guelfi, tutti sepolti in smisurate fosse comuni nei pressi del Convento di Certomondo, nella cui chiesetta si tumula perň separatamente, per "dovuto" rispetto, il loro comandante, Guglielmo degli Ubertini, Vescovo di Arezzo.
E piů di mille saranno i prigionieri ghibellini, che vengono portati a Firenze per richiederne riscatto, come di fatto poi avviene per i piů: i centinaia rimasti senza nelle prigioni fiorentine saranno lasciati morire miseramente di lě a breve e sepolti lungo Via di Ripoli, nel luogo ancora chiamato "Canto degli Aretini", cioč "Campo" o "Angolo" ovvero "Cimitero" degli Aretini.
In un primo momento a Firenze, quale risultato della vittoria, sembra aprirsi un'epoca di "pace", ma presto nuove contrapposizioni "interne", che da "personali" si evolveranno ben presto in "familiari" e quindi in "politiche".
Dilagheranno appestestando ogni quartiere, premessa a quel "lacerante" processo della ulteriore divisione in cosiddetti Guelfi "Bianchi" e Guelfi "Neri".
Da parte sua Arezzo, nella seconda metŕ del Duecento, sotto detto Guglielmo o Guglielmino degli Ubertini, "ghibellino" di una delle piů potenti famiglie nobili di origine "franca" del territorio aretino, ha conosciuto un periodo molto florido.
Ma dopo la morte sul campo del suo Signore e Vescovo non riesce piů a "fronteggiare" la nobiltŕ guelfa espulsa da Arezzo (in esilio accolta da Firenze ed ora da questa opportunisticamente "spalleggiata") e finisce per subire un periodo di profonda "instabilitŕ" sociale con conseguente "impoverimento" economico, almeno fino al nuovo episcopato di Guido Tarlati nel 1312.
In questo clima sociale molti Toscani della fazione "sbagliata" decidono di lasciare le proprie terre.
Alcuni di loro scegliendo di migrare nell'Alto Lazio, tra questi ultimi anche due giovani artisti aretini in deciso calo di "commesse". |
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Due "Mastri" in cerca di lavoro |
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Si sa ben poco di quei "Gregorio e Donato", che nell'agosto del 1315 si firmano con orgogliosa e quasi "ostentata" chiarezza |
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"Graegorius et Donatus 'de Aretio' me fecerunt anno Domini MCCCXV" |
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su un trittico "opistografo", cioč lavorato su entrambe le facce, il quale, dopo essere stato di recente ancora una volta mirabilmente restaurato, oggi viene conservato ed esposto nel Museo dell'Opera del Duomo "Bruno Panunzi", ovvero della "Collegiata" di Santo Stefano, a Bracciano, in Provincia di Roma.
Raffigura:
- da un lato il "Redentore" in trono, con angeli fra San Giovanni Battista e San Nicola sugli sportelli laterali interni
- dall'altro, la Madonna "della" Cintola, San Tommaso d'Aquino, angeli e un "monaco" - probabilmente San Francesco - tra Santo Stefano e San Lorenzo sugli sportelli.
Due "soci" aretini, di fatto esuli erranti, quindi piů che presumibilmente ghibellini, quasi di sicuro giŕ di mediamente elevata condizione "economica" e "sociale" nella cittŕ d'origine.
Ora in viaggio "forzato" a lasciarsi dietro una Arezzo duramente provata dagli inevitabili effetti di un dopoguerra a seguito della dura sconfitta subita nella Battaglia di Campaldino.
Artigiani "emigranti" in cerca di lavoro, con la speranza - se non la certezza - di trovarlo piů facilmente sfruttando ragionevolmente preesistenti rapporti tra le dominanti famiglie "ghibelline" aretine, giŕ loro datori di ben remunerato e continuativo lavoro, quindi ora autorevoli "referenti", e i Signori altrettanto "ghibellini" della Viterbo di allora...
A inconfutabile conforto di questa "ipotesi" č possibile seguirne il tragitto segnato da molteplici "soste" di lavoro:
- in Umbria, ad Orvieto, lasciano un "Cristo benedicente in gloria" nella Chiesa di S. Lorenzo in Arari
- come tracce evidenti di una piů "ricca" attivitŕ artistica lasceranno nell'Alto Lazio, dove addirittura, ultimi "pionieri", introdurranno il primo giottismo di Assisi
nel "Trittico del Ss. Salvatore", forse prodotto a Bracciano
quasi sicuramente nell'affresco del "Giudizio universale" in S. Maria Maggiore, quello dei "Ss. Secondiano, Veranio e Marcelliano" in S. Pietro e l'"Albero della vita" in S. Silvestro, a Tuscania
a Montefiascone nella "Crocifissione" e le "Storie di S. Nicola" in S. Flaviano
a S. Martino al Cimino con la "Madonna in trono col Bambino"
ed infine la "Madonna della Ss. Trinitŕ" a Viterbo.
Proprio questa "Madonna" di Viterbo - "di tale Donato", come riportato nelle "Chroniche" quattrocentesche - diventerŕ largamente famosa, sen non "artisticamente" almeno "religiosamente".
Gli attribuendogli la tradizione popolare locale addiruttura un miracolo durante l'"apocalittico" nubifragio abbattutosi sulla cittŕ la sera del Lunedě dell'Angelo Anno Domini 1320! |
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"Goro" e Donato |
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La citata "Madonna di Viterbo" sarebbe una delle ultime opere, se non l'ultima in assoluto, eseguite nell'Alto Lazio dai due "vaganti" maestri pittori prima del loro definitivo rientro nella cittŕ natale di Arezzo, proprio intorno al 1320.
Lo sappiamo con sicurezza perchč ad Arezzo i due artisti continueranno il collaudato sodalizio e la loro opera congiunta produrrŕ la "Pala chiamata della 'Collezione Hearst'", gli affreschi della "Madonna in trono" e le "Storie di S. Anna e Gioacchino" nel Duomo e dell'"Adorazione dei Magi" e la "Disputa coi dottori" nella Chiesa di S. Domenico.
Storici del primo Novecento sembrano aver identificato "G. e Donato" in due pittori aretini ricordati piů "esplicitamente" in documenti d'archivio: rispettivamente tali "Goro di Manno" e "Donato di Rigo".
"Goro" č diminutivo di "Gregorio" figlio di Manno, documentatamente ad Arezzo nel 1321, annotato testimone in un atto notarile, storicamente presente anche in altri documenti relativi suo figlio Angelo, anche lui pittore, morto nel 1340.
Donato da Arezzo risulta figlio di Rigo e padre di Luca, anche loro entrambi pittori, ma meno noti, le cui notizie risalgono al 1324.
Sappiamo addirittura come Donato nel 1328 abitasse nel cuore di Arezzo, "in contrada inter muros veteres", probabilmente all'indirizzo di una viuzza, ora scomparsa, fra Piazza Grande e S. Niccolň, e come fosse sicuramente giŕ morto nel 1350, dato che č il figlio Luca a dover pagarne un debito lasciato insoluto.
L'identitŕ di Donato risulta ulteriormente confortata dalla documentata "parentela" con un altro pittore, Andrea di Nerio, il piů noto dei pittori aretini di quell'epoca, attestata da un documento 1333.
Donato vi dichiara di aver ricevuto da Andrea la restituzione di "metŕ" della dote della defunta figlia Gemma, giŕ moglie di Nerio, anche lui ormai morto, trattenendone Andrea, quindi il figlio - o almeno "figliastro" - di Gemma, l'altra metŕ "secundum formam
statutorum".
L'iscrizione "Graegorius et Donatus 'de Aretio'..." suggerisce, al pari di altre varianti di firma del tipo "Gregorio e Donato" o piů semplicemente "G. e Donato", come "Goro" sia il piů anziano, perché, come tale, il suo nome viene apposto "rispettosamente" per primo nel marchio del sodalizio.
Quindi dei due il nome di "Goro" per primo, pur essendo lui ancora "legato" alla maniera pittorica del "primo Giotto" di Assisi, mentre quello di Donato al secondo posto, pur essendo lui il piů "moderno", quello "vivace" e "alla moda", testimone e diffusore di una pittura piů "popolare", cioč del "nuovo Giotto" di Padova. |